Dialetto sanmartinese
 
Grammatica del dialetto sanmartinese, proverbi, modi di dire, usi e costumi della civiltà contadina a San Martino in Pensilis
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martedì 1 dicembre 2009

Alcune ipotesi sull'origine di San Martino

Il Tria, riportando quando scrive l'abate Giambattista Polidori, ci segnala che i Goti distrussero Cliternia (ubicata vicino al torrente Saccione) e che alcuni abitanti, sottrattisi alla furia distruttrice dei barbari, trovarono rifugio sopra un colle ove avrebbero edificato una chiesetta votiva a San Martino, vescovo di  Tour, venerato in tutta Europa. La data della distruzione di Cliternia, sempre secondo il Tria, è il 495 d. C. e trova conferma anche in altri storici che fanno risalire l'insediamento del colle tra la fine del V e l'inizio VI sec. d. C.
   Un dubbio che può sorgere spontaneo è: perché costruire così lontano da Cliternia?... Essa poteva benissimo essere una buona cava di materiale edile già pronto per l'uso, come è sempre accaduto nel medioevo, e anche dopo.
   In un attestazione del papa Pasquale II [1099-1118] mandato all'abate di S. Sofia di Benevento viene indicata la chiesa di S. Martini Episcopi in Biferno, attestazione riconfermata da Anacleto II [morto nel 1143]. 
   Dati alquanto lacunosi. Il dubbio è che sebbene il Biferno lambisce il vasto territorio sanmartinese (il più vasto del Molise) è pur abbastanza lontano, anche come un possibile eponimo che possa identificare il paese. Un altra ipotesi che si potrebbe fare è questa: si può considerare la possibilità che ci fossero uno, due o più piccoli agglomerati distanti fra loro, e forse nemmeno posti sul colle attuale. Di terremoti ce ne saranno stati e la distruzione di qualche casa o chiesetta consentì così lo spostamento nello spazio fino ad arrivare al colle attuale. La posizione sul territorio, a quei tempi, era una cosa prioritaria e costruire in pianura significava essere più esposti, quindi la plausibilità della scelta di un colle era più saggia ed appropriata. Però qualche casa non fa una città. La possibilità che gli abitanti, inizialmente (per i primi secoli) vivessero sparsi per le campagne, in tuguri e in piccole abitazioni, non è da escludere. Dopo la distruzione di Cliternia il paese avrebbe potuto nascere a tutti gli effetti più di qualche secolo dopo quel tragico evento; pochi abitanti scampati non fanno una città e così sparsi per il territorio, insieme ai locali, il loro numero aumentò. Di monasteri ce n'erano e quindi per i pochi abitanti di allora il rifugio in caso di pericolo era assicurato. Il problema forse giunse quando la popolazione del contado divenne rilevante e così si iniziò a costruire sul colle o altrove.
   Sembra che nella zona ci sia stata una cospicua presenza benedettina che aveva come centro San Martino a cui erano subalterni: Santa Maria di Casalpiano presso il torrente saccione e il monastero di San Felice.
   Quindi l'ipotesi che San Martino come cittadina sia nata verso l'anno mille o oltre e che prima di allora era soltanto un distretto ecclesiastico non sembra poi tanto campata in aria. La distruzione di Cliternia avrebbe così creato, secondo questa nostra ipotesi, soltanto degli abitanti sparsi per il territorio che secoli dopo, per il crescere del loro numero e per concessione del monastero (probabilmente San Felice), ebbero il loro territorio è uno spazio attorno alla chiesetta ove costruire
l'abitato. Sicuramente la pincera funzionò a pieno regime e sarà databile proprio a questo periodo, forse anche prima. A meno che essa forse iniziò a funzionare dopo uno spostamento di un certo centro abitato. Si può, continuando questa ipotesi, presumere che gli abitanti del circondario inizialmente avessero edificato nell'attuale posto ove c'è la contrada di Castel Vecchio, ovvero sopra la Pincera. Anche questo era un colle simile a quello sanmartinese, difeso da Nord e Nord-Ovest dalla conformazione del terreno a dirupo. Il toponimo Castel vecchio dà conferma di una possibile presenza di un centro abitato in questa zona. Può darsi che San Martino inizialmente era proprio la Pincera con le sue fornaci alle quali chiunque della zona vi attingeva materiale, compreso il monastero. Nacque inizialmente dalla fusione di artigiani del luogo: addetti alle fornaci, fabbri, falegnami, mugnai, contadini ...
   Con l'asportazione continuata del materiale argilloso, il paese Castel Vecchio non poteva che essere spostato più su, verso la chiesetta, ove già iniziava gradualmente a formarsi qualche piccolo agglomerato urbano attorno.
   Ci sarà stata una dimora fortificata di qualche signorotto. La contrada Rejale col suo nome dovrebbe far riferimento a un palazzo... medioevale?... Nella zona ci sarebbe stata, comunque, la possibilità di rifugio per gli abitanti in caso di pericolo. Non bisogna dimenticare che il rapporto servo-padrone nel Medioevo, consentiva agli abitanti del contado di rifugiarsi entro le mura del castello (o in un monastero) in caso di pericolo. Insomma la nascita immediata di San Martino dopo la distruzione di Cliternia potrebbe essere infondata. Sicuramente saranno passati
diversi secoli prima della nascita effettiva del paese, ovvero Mezzaterra.

   Dopo l'anno mille il paese non era ancora definito, non era un unità, un centro abitato unitario, era qua e là, con i centri più grandi magari  sul colle sanmartinese e quello della Pincera. San Martino era un contado la cui maggioranza delle abitazioni erano case di campagna, oltre ai conventi e al palazzo (o palazzi) del signorotto.

   Questo frazionamento, con l'arrivo degli albanesi, fece avvertire la sua fragilità e gli abitanti sentirono il forte bisogno di crearsi davvero una città; così nacque (o si ingrandì vistosamente) il paese vecchio: Mezzaterra.
   Evidentemente il nome indicherebbe una spartizione territoriale e gli abitanti si videro costretti a creare un luogo definito per evitare fastidi da questi stranieri in terra loro. Le carte le giocavano gli uomini di potere, i grandi di allora, e i sanmartinesi da soli non avrebbero potuto far niente contro le decisioni venute dall'alto. Quindi, i primi anni (o secoli che dir si voglia) sarebbero stati intrisi di rancore verso questo abuso ed espropriazione territoriale.
   Nella mia modesta e breve esperienza terrena, da infante e adolescente, ricordo le botte che i giovani sanmartinesi, irruenti, si scambiavano con gli albanesi di Chieuti, solo per il fatto di essere albanesi o per delle quisquilie. Il forestiero, il diverso, sembra che non abbia avuto buona accoglienza e attecchito nel cuore sincero del sanmartinese. Un'atavica insofferenza per il torto anzidetto subito. La spartizione territoriale di allora, facendola i padroni, per questi era completamente indifferente che il servo fosse albanese oppure sanmartinese; cosa che per quest'ultimo invece faceva eccome la differenza. La Corsa dei Carri stranamente, oltre che a San Martino, viene fatta anche nei vicini paesi albanesi limitrofi: Portocannone, Ururi, Chieuti. Ma non la si fa a Campomarino (paese della stessa origine albanese) che sta più in là di Portocannone e più vicino al mare e al circondario di Termoli. La corsa non c'è nemmeno a Montecilfone che è troppo distante territorialmente e dunque lontanissimo dalle vicende della spartizione territoriale anzidetta. Guglionesi, oltre il Biferno, sebbene non sia albanese, nemmeno pratica la corsa dei carri. Allo stesso modo Larino, sebbene ci siano delle feste con sfilate di carri trainati da buoi. Evidentemente la Corsa dei Carri propriamente detta, come appare oggi, ha qualcosa a che fare con la venuta degli albanesi nel nostro territorio e, poiché sembra alquanto improbabile farla risalire a un importazione oltremare, possiamo pensare giustamente che essa rappresenti un compromesso, un accettazione reciproca. [Un po' come avviene oggi nelle manifestazioni da parata fra India e Pakistan]. La corsa dei carri rappresentò un vincolo ai patti della spartizione territoriale.
   Penso che il carattere duro, a volte spietato, del sanmartinesesi sia forgiato proprio in base a quell'evento. È ovvio che oggi la questione è irrilevante, come può esserlo una goccia d'acqua in un bicchiere d'acqua, ma nei tempi andati doveva essere qualcosa di veramente importante, determinante. La corsa è apparsa in quel periodo su una tradizione precedente del luogo, forse simile a quella larinese. La gara subentra con l'arrivo degli albanesi. Precedentemente è probabile che ci potesse essere soltanto una processione di carri trainati da buoi, oppure una corsa senza gara. E come tutte le cose tradizionali (dialetto soprattutto) si perde, evolvendosi a ritroso, nel tempo, nell'immaginario religioso osco-sannitico.

   Il medioevo come si sa è caratterizzato dalla prolifica costruzione di rocche, castelli, conventi e la chiesa giocava un ruolo determinate nei conflitti di allora. La nostra zona, oltre ad essere stata invasa dai goti, passò poi ai longobardi, ai normanni, agli svevi, vide passare le orde degli ungari, scorrerie saracene, ecc... insomma era una zona abbastanza movimentata. Verso il mille doveva apparire come un pullulare di case di campagna, boschi, monasteri, rocche, palazzi di signorotti locali. Sebbene non ci fu, come al Nord, la formazione di una vita comunale vera e propria, si deve considerare la vita medioevale che continuava dopo il mille, con al centro il palazzo del signorotto, o il monastero, cardine di tutta l'attività che ivi si svolgeva.

   Nel periodo appena seguente le invasioni barbariche di certo il colle doveva apparire all'occasionale viaggiatore come un territorio per lo più boschivo e incolto, i cui abitanti sparsi nel circondario forse, soltanto per necessità, si erano dedicati all'agricoltura. Di certo non erano tutti cliterniani. Le poche capanne formarono nel tempo un piccolo villaggio e così, solo dopo il mille e rotti, si inizia a parlare un luogo chiamato San Martino in PLuogo però non vuol dire paese.

   La civiltà contadina sanmartinese rimase certamente scossa, colta alla sprovvista dall'arrivo degli arbresh. Del resto la popolazione, proprio perché dedita alla vita rurale, viveva dispersa per le campagne e non sentiva ancora il bisogno di un agglomerato urbano che la contenesse o la proteggesse. In caso di pericolo c'era sempre la possibilità di rifugiarsi nei conventi o nei palazzi dei signorotti.
   Probabilmente il colle poteva avere soltanto qualche bottega: da falegname, da fabbro-maniscalco, un mulino, mentre per la fabbrica di mattoni e coppi c'era la Pincera. L'economia curtense ancora regnava nella zona e gli scambi avvenivano sempre al suo interno, una comunità autosufficiente, tutto ciò di cui si aveva bisogno si produceva e si consumava in campagna. Del resto vi immaginate a quei tempi i contadini, sparsi per un vasto territorio, come quello sanmartinese, avessero voglia di ritornare, dopo il loro duro lavoro giornaliero, al paese, con i mezzi (e strade sterrate) che c'erano allora!
   San Martino si può dire che sia nata proprio con l'arrivo degli albanesi, come se di colpo ci si è accorti di avere un identità, se non altro una necessità di colpo avvertita: quella di difendersi dallo straniero. Almeno così l'animo popolare avvertiva questa intrusione.
   La nascita del paese verso il XV-XVI sec. è anche avallata dal fatto che, nei documenti o nelle cronache di allora, le catastrofi naturali, come i terremoti, antecedenti a questo periodo (per es. quello che distrusse completamente Ururi, Portocanduni, Magliano, Maglianello, Campomarino,... nel 1456), accaduti nella zona, non registrano la distruzione, o la menomazione strutturale di un paese che stesse sopra il nostro colle. Se il suo circondario, compresi i diversi paesi, erano stati distrutti perché non è stata  riferita la distruzione o almeno il danneggiamento di un centro che si chiamasse San Martino?... Semplicemente perché non esisteva e, ciò che non esiste, non può essere danneggiato o distrutto. Elementare Watson!...


Elaborazione personale di carta Geografica del Regno di Napoli di G. A. Rizzi Zannoni


ALTRE IPOTESI


[1]  Esisteva un insediamento medioevale sul colle (anche se non ci sono attualmente fonti che lo confermano) che fu distrutto (o seriamente danneggiato) dal terremoto del 1456 oppure da quello precedente. San Martino poteva essere un piccolissimo feudo rustico come quello ove era situata la chiesetta di Santa Maria in Auròle costruita verso il 945 e poi distrutta, intorno al quale ebbe origine l'abitato di Ururi.

[2]  È possibile che San Martino fosse soltanto il palazzo ducale (baronale), il cui colle sembra sia l'unico posto (per ubicazione topografica) ove si poteva controllare l'intero territorio circostante. Bisogna considerare anche il fatto che i confini di un territorio possano mutare nel tempo e, certamente, per quel che riguarda il periodo medioevale è difficile stabilirli a priori. L'attuale contado sanmartinese, in passato, era molto più vasto e magari sarà stato diviso tra vassalli minori. Ci potevano essere due, tre palazzi (o castelli), alcuni conventi. Casale Aurio, Portocandesium e San Martino potevano essere i tre feudi minori e sul colle primeggiava il palazzo principale. Il terremoto del 1456 distrusse così le abitazioni popolari (costruite male e con materiale scadente) del circondario sanmartinese ma non il castello (palazzo baronale), con le sue mura possenti, costruite a regola d'arte.

[3] - Dato l'enorme lasso di tempo (circa un millennio) tra la caduta di Cliternia (495 dell'Era Volgare) e le prime scarne notizie (a cavallo tra il XV e XVI secolo), si può supporre la presenza dinamica di un agglomerato urbano; ovvero un centro (posto sul colle) che esisteva a seconda delle vicende storiche,  geopolitiche o geofisiche (terremoti e pestilenze). Una pestilenza può distruggere un paese e spingere gli abitanti superstiti ad andarsene via ma, ancor più, i terremoti (secondo le statistiche, ogni cinquantina di anni ce n'è uno importante). Può darsi che il paese abbia avuto veramente origini medioevali ma nel corso del millennio (dianzi precisato) la possibilità che il colle fosse stato (diverse volte) scosso da un terremoto è un ipotesi accettabile. È facile pensare che se alcune volte si ricostruiva, può darsi che altre volte (anche per periodi abbastanza lunghi) si evitava di farlo. Ci sarebbe stato insomma sul colle, un aggregamento e uno disgregamento continuato nel corso del tempo, con la gente che comunque rimaneva sempre nel suo contado circostante. Quando accadde il terremoto del 1456 il paese non esisteva o non era ancora stato ricostruito.


Elaborazione personale di carta Geografica del Regno di Napoli di G. A. Rizzi Zannoni

Gli albanesi

   Le migrazioni albanesi (Arbëreshë), nel nostro territorio, risalgono ad un periodo che va dagli inizi del XV sec. fino ad oggi, in 9 distinte ondate migratorie successive, formando colonie sparse per il territorio del Meridione, senza un centro definito. Attualmente il numero è di una cinquantina che assommano a circa 100.000 abitanti che parlano un albanese piùttosto arcaico.
      La terza ondata migratoria è quella che interessò il Molise, risalente agli anni 1461-1470, con la venuta in Italia delle milizie del condottiero Giorgio Castriota Skanderberg, principe di Krujia, che aiutò Ferrante I d'Aragona nella lotta contro Giovanni d'Angiò. Per i servigi resi, fu concesso  ai soldati ed alle loro famiglie di stanziarsi in diverse zone dell'attuale Molise e Puglia.
   Gli albanesi, al contrario di quelli rimasti in patria convertiti all'Islam,  conservarono la religione cristiana di rito greco-ortodosso.

La terza migrazione [1461-1470] è appunto quella che a noi interessa [poiché ci coinvolse come popolo] creò diverse comunità e centri tra i quali:

- Chieuti, Campomarinoe Portocannone(facenti parte della Capitanata); 
- Montecilfone
, Ururie  San Martino [sic] (del Contado di Molise.).
Quindi inizialmente San Martino, avendo una comunità albanese, questa poteva benissimo essere, inizialmente, la sola comunità ivi situata oppure divideva con i sanmartinesi l'abitato a metà: Mezzaterre. Ammesso che esistesse già un abitato così grande da potersi considerare paese.

   Il Tria nel lib.4. §.1. num.5. nelle sue Memori annota : « Quelli di Nazione Albanese mantengono ancora lo stesso costume, come se ora fussero qui venuti dalle loro Patrie, e con esso lo spirito altiero, e bellicoso coll'uso del parlare Albanese, quale è un Greco corrotto, e pieno di volgari idiotismi, e meno ove per le vicende del mondo è cresciuto il numero degl'Italiani, come specialmente in S. Croce, dove in poco differiscono dagl'Italiani, specialmente ne' costumi ».

   Questa massiccia ondata di Popolazioni albanesi, oltre che per un debito di riconoscenza dovuto al principe di Kruja, sembra sia stata consentita e necessitata ancor più dall'urgenza di dover ripopolare questo vasto territorio devastato e spopolato dal terribile terremoto del 1456. Ad Ururi e Campomarino per es. non c'era anima viva, nel vero senso della parola ... Larino distrutta dalle fondamenta, come riporta una cronaca di allora... e il resto del territorio non stava di certo meglio... 
   La stessa S. Croce fu appellata de' Greci, proprio perché ripopolata da gente albanese. E sicuramente anche S. Martino aveva almeno un nucleo consistente albanese, e il toponimo Mezzaterre è significativo ... Poco prima dell'arrivo degli Arbëreshë le nostre terre erano veramente desolate ...

     Il conte, il barone di turno che dir si voglia, non poteva gravare con decime sulla già disastrata e miserevole situazione dei sudditi superstiti, e sperare così di rimpinguare le proprie casse. Ci voleva altra manodopera a buon prezzo... e cosa c'e di meglio, se non consentire lo stanziamento di una popolo, ormai senza più casa e Patria, che viene a legarsi oltretutto al Signore feudale con un debito di riconoscenza.
VEDI http://www.guzzardi.it/arberia/storia/storia.htm
VEDI http://www.ururi.com/cennistorici.htm

Il sanmartinese, ha subito, senz'altro, ...

Il sanmartinese, ha subito, senz'altro, un certo isolamento rispetto ad altri dialetti molisani limitrofi, dovuto, in massima parte, alle popolazioni albanesi confinanti con il suo circondario.

Onde avallare l'ipotesi che la Carrese ...

Onde avallare l'ipotesi che la Carrese sia la forma di un dialetto arcaico sanmartinese, ancora non molto differenziato da quelli limitrofi, lo stesso D. Sassi ce ne fornisce la prova con i suoi sonetti, scritti in dialetto tipico sanmartinese. Perché non, dunque, allo stesso modo è stata realizzata la stesura della Carrese?... Per il semplice fatto che è una trasposizione fedele (o quasi) di ciò
che si è venuto tramandando, identico, oralmente, di padre in figlio, con uno scarto linguistico evidentissimo.
    RREVENN 'I CARRE

I prîme nove spacchen 'a Marîne
tutte querren' a sdoss' e senza sciâte:
lèste, ca 'u prîme carre stà bbecîne
scanzàteve ca quill' è ggià rrevâte.

'Ndramejènde mo' revènn 'i carrezzîne
ch'i carre n'u trattôre hanne spettâte 
spàren 'i bbotte pruopeje n'u melîine
i ggiuvene mò l'hanne quartejâte.

Ecche de lèv 'u prîme carre sfile
mmezz' a 'nu munne de cavall' e 'i ggente
chi pregh' e llucch' e chi mandé 'u respîre

'u prîme sott 'u ponde mo' ce 'mbîle
'u seconde v'a ccuost' a 'nu sespîre.
V'a Ssande Lè Tu puorti nzalvamende!
Qui non ce niente che possa far ricordare il linguaggio abruzzeseggiante della Carrese. Perché mai il Sassi avrebbe dovuto usare due pesi e due misure?... Il dialetto della Carrese è proprio arcaico, così come quello dei sonetti del Sassi è tipico del suo tempo, e in maggior parte identico al nostro.

Andando a ritroso nel tempo possiamo solo riferirci ad ipotesi, discutibili, è ovvio, e confutabili senz'altro. Si potrebbe per es. immaginare che, in un lontano passato, gli abitanti della nostra zona fossero stati effettivamente degli abruzzesi che in un modo o nell'altro (guerra, pestilenza, terremoti, ...) si siano assottigliati vistosamente di numero, quasi ad estinguersi, e quindi il territorio veniva automaticamente ripopolato poi da altra gente con la loro tipica parlata... Da questo crogiuolo etnico, si è venuto poi a formare e ad amalgamare, permanendo quasi intatto per secoli, il dialetto samnartinese con il suo tipico folclore, in parte acquisito in loco. Si tratterebbe comunque di tornare
indietro di diversi secoli...

La carrese

La carrese. Questo antico documento, in forma prima orale, poi trascritto dal poeta Domenico Sassi, fa balzare subito agli occhi una significanza non trascurabile, e cioè: la trasparenza di un dialetto quasi abruzzese piuttosto che di uno tipicamente sanmartinese. Non mi sembra comunque attendibile che il Sassi, per quanto fosse ispirato dalla sua musa e in vena irrefrenabile di licenze poetiche, evadesse in siffatto modo la parlata locale a favore di un dialetto altro, sebbene strettamente imparentato. Ha riportato semplicemente la voce popolare, per
quanto gli era possibile e/o riproponibile ...
L'orale, trasmesso ab antiquo, quasi fosse un formula magica, ripetitiva, introiettiva, fa sospettare giustamente che una volta i dialetti del Basso Molise e quelli di una parte dell'Abruzzo, fossero meno diversificati.
  Mi sembra di risentire la voce di mia nonna... bejelle, lejere, mmejezze, parole che oggi suonerebbero strane o estranee alle nostre orecchie, assuefatte a quelle, forse troppo italianizzate, di belle, lîre, mmezze ...

A parte qualche inevitabile licenza poetica consideriamo queste particolarità:

DIALETTO ARCAICO  DIALETTTO ATTUALE
  
vuoglie, figlie, sbaglie    gli   < --- >  jj    vuojje, fijje, sbajje >
lu < --- >   'u
la < --- >   'a
la mia ménde < --- >   'a ménde mîje
ze < --- >   ce
li tò mure < --- >   'i mure toje
de lu Saccione < --- >   d'u Saccione
addo' < --- >   a 'ndo>
che lu battezzave! < --- >   c'u vattejave
purta’u< --- >  e      pertà
le Cchièse de Rome! < --- >   'a Cchièse de Rome!


Gli articoli e pronomi lu, la, li e addirittura le, certamente saranno stati il passaggio intermedio dalla forme latine illu, illa, illi e illae a quelle ancora attuali 'u, 'a, 'i e l'. Questo canto così particolare, tramandato oralmente, che fa da proemio alla Corsa dei Carri, ha portato con sé questo divario linguistico, un po' come succede per le persone che, a San Geseppe, per es. pronunciano gessèmbe, senza nemmeno conoscere l'effettivo significato, ma riportando comunque, e questo è rilevante, il fatto linguistico così come è stato tramandato.
  Venendosi a formare gli articoli 'u, 'a ed 'i, le parole inizianti per vocale, per adeguarvisi, cominciarono in gran quantità a subire un processo aferetico, specialmente gli innumerevoli verbi inizianti per a- o per i-.
- acîte         > cîte
- accattà     > 'ccattà     
- alleqquà   > 'lleqquà   
- allemenà  > 'llemenà   
- ecc...

Le preposizioni ugualmente si conformarono per lo stesso motivo.
- de lu   >  d'u
- de la   >  d'a
- de li    >  d'i
- de le   >  dell'

Può darsi che sia solo una forma di licenza poetica lo spostamento dell'aggettivo possessivo a sinistra, cosa proibitivo in modo categorico nel dialetto.

- li to mure        >  'i mura toje
- la mia mende 'a mende mî

Teniamo però presente che questa inversione dà proprio il senso poetico, altrimenti degradato.

Il fatto curioso è la gl palatale (ancora insita per es. nella parlata del santacrocese e nel casacalendese) che ancora non dava il sua esito in jj e il pronome ze (larinese, santacrocese, ...) invece di ce.

Tentiamo una ristrutturazione della Carrese nell'ambito ristretto dialettale, tenendo in debito conto che l'accento metrico potrebbe cadere a volte anche sulla schwa, cosa che non succede quasi mai nel parlato.
Non si sta ad ogni modo tentando una ri-composizione poetica, ma soltanto un confronto grammaticale... a scapito purtroppo della metrica, della bellezza formale e del senso poetico.
VERSIONE TRASPOSTAVERSIONE DEL SASSI
Me vuojje fa 'a Croce, Patr’e Fijje,
pecciò ca mende mije nen ge
                                 sbajje.

A premmavére ce rennov’u mònne,
de sciure ce revèste 'a cambagne;

l’àrbere ce recopr’ a stéssa fronne,
l’avecejèlle tra lor gran                                  fèsta fanne!

Cchies’adorat’ e scala triumbande
d’avoleje sonne fatte 'i mure toje;

'n guésta Cchièse ce stà ‘nu Corpe Sande
e pe' nnome ce chiame Sande Lejone!

Anne, Madonna mi’ d'u Saccione,
e Sande Léje de Sande Martine,

e Sand’Adame ch’è 'u cumbagnone
e sande Vàsel’ accand’ (a) 'a Marine!

Me vuojje fa’ ‘na vèsta pellegrine
e vuojj' jî a 'ndo’ sponde 'u sole;

a llà ce staje ‘na conga marine
a 'ndo' ce battezzaje 'u Segnore nostre,

e la Madonne 'u tenéve nzine
e Sande Geuanne c'u vattejave!

E nu’ lauedam’ a tté, Matra Marije
tu sol’ a pu pertà ‘mbalme de mane;

e nuje 'U pregame tutte quande
Ddì ce ne scambe da tembèst' e llambe;

e nuje 'u pregame ndenucchiune
scàmbece da tembèste e terramute;

e nuje 'u pregame e nzéme dégne
purta’ 'a palm' e 'a ndurata nzégne!

A ndò ce v’ a scarcà 'u vérde làuere?
A Sande Pejètre 'a Cchièse de Rome!

Nu’ veléme lauedà quistu gran Zande
fa menì ‘n zalvamènd’ a tutte quande!

Tòcca, carrier’ e ttòcche’ssu temone
tocca 'u carre de Sande Lejone!
Me vuoglie fa la Croce, Patr’e Figlie,
perciò che la mia ménde nen ze sbaglie.

A premmavére ce rennov’u mònne,
de sciure ce revèste la cambagne;

l’àrbere ce recrop’ a stéssa fronne,
l’avecièlle tra lor gran                                  fèsta fanne!

Cchiès’adorat’ e scala triumbante
d’avoleje sonne fatte li tò mure;

'n guésta Cchièse ce stà ‘nu
                                 Corpe Sande
e pe' nnome ce chiame Sande Lejone!

Anne, Madonna mi’ de lu Saccione,
e Sande Léje de Sande Martine,

e Sant’Adame ch’è lu cumbagnone
e sande Vàsel’ accand’ a la Marine!

Me vuoglie fa’ ‘na vèsta pellegrine
e vuoglie ì addo’ sponde lu sole;

a llà ce staje‘na conga marine
addò ce battezzaje nostro
                                 Segnore,

e la Madonne lu tenéve nzine
e San Geuanne che lu battezzave!

E nu’ laudam’ a tté, Matra Marije
tu sol’ a pù pertà ‘a palma mmane;

e nuje Lu pregame tutte quande
Ddì ce ne scambe da tembèst e llambe;

e nuje Lu pregame ndenucchiune
scàmbece da tembèste e terramute;

e nuje Lu pregame e nzéme dégne
purta’ la palm' e la ndurata nzégne!

A ndò ce v’ a scarcà lui vérde làure?
A Ssande Pejètre le Cchièse de Rome!

Nu’ veléme laudà quistu gran Sande
fa menì ‘n zalvamènd’ a tutte quande!

Tòcca, carrier’ e ttòcche’ssu temone
tocca lu carre de Sande Lejone

Sassi si è avventurato in qualche apocope un po' azzardata, ma proficua, come Gran Sande che, dialettalmente, per il fenomeno della sonorizzazione, suonerebbe Gran Zande; e gran fèsta darebbe gram bèste. Mentre suona bene lor gran. Ciò non toglie comunque che Gran Sande e gran fèstasi possano pronunciare venalmente così come sono scritti, senza la tipica sonorizzazione dialettale.

Il poeta della Carrese, ad ogni modo, è vissuto in un contesto storico-linguistico piuttosto arcaico rispetto al nostro, e ciò va tenuto in debito conto, onde evitare trasposizioni linguistiche che informano arbitrariamente l'assenza, sformando ad hoc il tessuto dialettale del passato. Purtroppo il dialetto ha lasciato ben pochi documenti, rispetto alla variegata civiltà contadina di allora, e attendibile resta solo la memoria dei vecchi che purtroppo si perderà con loro.

Il dialetto, una volta estremamente funzionale ...

Il dialetto, una volta estremamente funzionale, aderente, alla vita paesana di allora, adesso come una pelle ce lo ritroviamo addosso ... Ricorda un po' la barzelletta del pimpante vecchietto che esclama « ... io vado ancora dietro alle ragazze ... solo che non mi ricordo il perché ... ». Sembriamo tanti sfrattati, poiché non esistono più né i luoghi, né quindi l'uso appropriato che se ne faceva nel loro ambito. Ormai l'unica strada percorribile sembra possa essere soltanto quella di un recupero culturale che lo avvalori ...

Qui una volta c'era il dialetto.

La lingua è un codice, segue delle regole ....

La lingua è un codice, segue delle regole; i segni dovrebbero essere puramente arbitrari. Se io attribuisco alla sequenza di lettere h-u-r-a-t-m-a-l il significato di casa creo un arbitrio, dò un significato a dei fonemi inventati di sana pianta. Se poi creo una lingua, delle parole, un dizionario, una grammatica, .... ove la frase per es. come huratmal aigon eua significa vado a casa ora non faccio altro che costruire un sistema linguistico. Ma se io nasco ggià nella forma dialettale non posso fare a meno d'essere creato e posso solo inventare ciò che m'inventa. Siamo abitati dal dialetto. Il dialetto non può essere mai un puro codice arbitrario. L'arbitrio non ci riguarda.

Chi erano i sanmartinesi originariamente?

Chi erano i sanmartinesi originariamente? ... Nel corso del tempo ci sarà stata una mescolanza di sangue e di lingue, creando così una notevole difficoltà a chi cercasse di stabilire, anche se approssimativamente, una radice linguistica comune, succedutasi intatta nel tempo fino a noi. Fatto sta che buona parte del Sud e del Centro-Sud ha delle rilevanti similarità dialettali, con tante differenziazioni più o meno evidenti, e lo stesso Molise costituisce un esempio lampante di come esistano, anche tra paesi confinanti, varianti fonologiche significative dello stesso vocabolo. Se ciò accade, è perché una volta (magari ancor prima del Medioevo) predominava fortemente il campanilismo, pur se in modo diverso dai comuni del Centro-Nord; ciò fa supporre che da secoli il dialetto locale si sia poco o per niente mutato. Gli apporti che potevano portare le poche persone provenienti da altri paesi vicini non erano sufficienti a mutarne la forma e 'i forestejere in genere, tranne rari casi eclatanti e memorabili, mutavano col tempo la loro lingua e la adattavano al dialetto locale e non viceversa. Il Sud contadino del resto si spostava poco dal loco natio e le comunità erano più che autosufficienti. I dialetti avevano già preso la loro forma ancor prima della nascita della stessa lingua italiana (che poi non è nient'altro, a rigor dei fatti, che una mescolanza dialettale). Già verso la fine dell'Impero Romano i dialetti prosperavano rozzi a scapito del levigato latino, e ancor più bisogna considerare che la latinizzazione non riguardava che una minoranza colta e istruita, rispetto alla Babele multilinguistica della incolta civiltà contadina. Questo parallelismo evolutivo tra lingua ufficiale e parlate locali non va sottovalutato e bisognerebbe andare un po' oltre nel tempo, oltre la romanità, e considerare ancora questa evoluzione parallela  rispetto ai conquistatori indo-europei. Tra di essi, le stirpi di lingua osca, come Sanniti e Frentani, non avevano di certo soppresso il dialetto locale dei contadini, almeno non nell'ambito della fonetica, del vocabolario rurale, di alcuni particolari costrutti ... 
  È ragionevole supporre che la tipica inflessione dialettale non sia mutata attraverso i secoli e addirittura per millenni. Così per es. le vocali contratte, le sonorizzazioni consonantiche, la riduzione a ê (schwa) delle vocali atone, le abbiamo ereditate di padre in figlio, sempre identiche, poiché fin dalla culla, il suono impresso è incancellabile ed immutabile, non come quello italiano che a fatica si impara (male) a scuola.
   Il dubbio che potrebbe sorgere è: ma esistevano i sanmartinesi nel nostro territorio milleni fa? Non si sa... Certamente esistevano persone che parlavano qualche dialetto arcaico in altro luogo, e già nella nostra zona c'erano senz'altro i contadini sanmartinesi molto tempo prima che il paese nascesse.

Generalizzando...

Generalizzando, marzullianamente, mi pongo una domanda e mi dò una risposta. Come mai la maggior parte degli italiani parla male l'italiano?... Per il semplice fatto che non hanno confrontato bene i loro dialetti (lingue italiane) con l'italiano. Ministro della pubblica d-istruzione, faccia qualcosa!... Anzi, no... non faccia niente, per carità!...

Dalla cultura contadina alla cultura dei bar

Dalla cultura contadina alla cultura dei bar.

Grazie agli insegnamenti professionali ...

Grazie agli insegnamenti professionali e alla televisione, dunque, abbiamo ottenuto implicitamente una gioventù che perlopiù considera il dialetto, non come una ricchezza aggiunta (da conservare) ma come una forma di ignoranza, e scarsamente comunicativo, che si deve evitare o estirpare, comunque. Il risultato del loro parlare, alquanto scadente e mediocre, non fa che rivalutare il dialetto all'ennesima potenza (ammesso che ci sia qualcuno conscio del suo valore e che perciò lo rivaluti).

Una volta chiesi al sindaco ...

Una volta chiesi al sindaco sul come fare per consultare e studiare qualche opera di Domenico Sassi, e affabilmente mi disse che fra due o tre giorni avrebbe riaperto la biblioteca. Sono passati comunque diversi mesi (or volge l'anno...) ma la biblioteca non sembra aver subita nessuna timida e lieve apertura (una glasnost), chiusa peggio delle case chiuse (a cui almeno però ci si poteva accedere una volta!). Il sindaco, vabbé, è rinomato per il suo senso del tempo alquanto dilatato, dilazionato e imprevedibile... come se il tempo cronos fosse quello atmosferico! Chiesi poi a un comunale (considerata l'inefficacia della domanda precedente) lo stesso, un ragguaglio
riguardante questa presunta apertura. «Fra due o tre giorni» disse con una certezza secca che non dà adito a dubbi; ma a me questo tipo di certezza (lo so per esperienza) ne dà parecchi; e così aggiunsi maldestramente (celiando, fingendo incomprensione) alla sua asserzione «fra un paio d'anni?...». «Ma stai a scherzare!...» rispose risentito. Scherzi o non scherzi, la biblioteca non apre nonostante i mesi passano.
   Oggi, comunque, ho fatto l'ennesima domanda ad un altro comunale, e questa volta (grazie la cielo!) con molta franca insicurezza mi rispose «...forse a fine anno, può darsi, o inizio dell'anno successivo...». Viva la sincerità e l'incertezza! Però non ho chiesto quale fosse l' anno ...
   È una brutta malattia questa: della perdita del senso del tempo; ovviamente il tempo per prelevare lo stipendio lo conoscono alla perfezione, al minuto-secondo. Il tempo è personale e non obiettivo-oggettivo. Anche Einstein lo disse: tutto è relativo, anche il tempo.

Il problemi che nascono nell'apprendere la lingua italiana ...

Il problemi che nascono nell'apprendere la lingua italiana, ovviamente dovuti inevitabilmente all'assuefazione dialettale, sono diversi: fonetici, morfologici, sintattici, semantici, paralinguistici...
  1. l'apertura vocalica di e ed o
  2. le vocali contratte ê, î, ô, â, û (che non esistono in italiano)
  3. la distinzione tra s dolce e s aspra
  4. la distinzione tra z dolce e z aspra
  5. la sonorizzazione delle consonanti c, f, p, q, s, t, v davanti ad n.
  6. il raddopiamento consonantico dialettale
  7. l'uso di parole dialettali italianizzate
  8. il costrutto morfo-sintattico
  9. ecc...
   Ancora risento certi professori che, affabili e nostalgici, incitavano noi alunni a non dimenticare il dialetto, persi in non so qual non ti scordar di me. Ma carissimi, se insegnavate (e se forse purtroppo insegnate ancora) l'italiano, bisogna considerare che ciò
che in dialetto è corretto, in italiano spesso non lo è. Se impariamo l'italiano ci tocca, per forza di cose, dimenticare, archiviare il dialetto che sempre influisce negativamente, in un modo o nell'altro, nell'apprendimento. E così ci ritroviamo ad essere ibridi, degli sformati culturali, né carne né pesce; non parliamo l'italiano come si deve e quel che peggio italianizziamo il dialetto, bistrattandolo. Tagliando la testa al toro: bisogna impararli
entrambi, cari miei professori; così evitiamo anche di trasferire suoni, modi e forme sbagliati dall'uno all'altro. Chiaro?...
   Pensate a questo quando vi vien la smania di additare ai giovani un passato di tradizione linguistica nostrana, e soprattutto pensate a cosa avete fatto voi per conservarlo. Non avete forse confermato (nella vostra irresponsabile, innocente-nociva fannullaggine) il contrario di quello che intendevate additare? Oggi ci ritroviamo così stranieri in casa nostra a tutti gli effetti (né dialettali, né italiani). Studiare il dialetto, intendiamoci, non serve per impararlo ma, semmai, soltanto per non dimenticare, dimenticarlo, e non confonderlo con l'italiano. Un colpo al cerchio e uno alla botte, due piccioni con una sola fava, insomma, esemplificando.

«Seme remaste come pioviggene!
»
   La nuovissima generazione parla una lingua mass-mediatica che non si capisce bene cosa sia: un misto tra romano e italiano maccheronico, con un inflessione da... lasciamo perde' ch'è mejjo. Questo è il danno professionale che ci hanno inferto coscienziosamente gli
statali stipendiati. Cosa dice il vate a proposito?...

 Non si può andare laddove si insegna per apprendere; per apprendere bisogna disapprendere; quando poi si apprende si fa doppia fatica: quindi sono ore buttate via. Non bisogna invocare lo Stato, lo Stato deve smettere di governare, lo Stato detta sempre dei codici; si finisce nella rappresentazione e ogni rappresentazione è sempre e comunque - ahinoi!
- rappresentazione di Stato. Non so se sia chiara l'antitesi tra studio e scuola. Si studia desiderando. Questo è lo studio. La scuola invece è la palestra dell'ozio, per gli scioperati, per chi ha tempo da perdere. Salvatevi finché siete in tempo! (Carmelo Bene da «Il Laureato Bis»)

La desertificazione del territorio sanmartinese ...

La desertificazione del territorio sanmartinese è un fatto che si è accentuato negli ultimi decenni. Lì, dove una volta c'era 'u vosche de rammetelle (lungo il corso del Saccione) e, dal lato opposto, 'u vosche de Tanasse (lungo il corso del Biferno e Cigno), oggi c'è soltanto terra coltivabile [?]. Gli oliveti crescono (ancora per poco) attorno al paese che si sta allargando a macchia di leopardo, con bellissime villette e case della nuova edilizia. La rinomata nostra cittadina dell'olio, fra non molto, l'olio, lo dovrà importare. La nostra stupenda edilizia sta divorando tutti gli oliveti (e tutta la vegetazione conseguente), forse per uniformarsi al deserto della zona del Saccione e del Biferno. Addio biodiversità, addio bios (vita)!... Se ci si affaccia p'u Giresterne, la situazione è lampante. Il colpo di grazia lo ha dato poi la zona industriale che ha deturpato tutto il Basso Molise. I politici, non soddisfatti appieno del deserto, continuano a proporre leggi sull'ammodernamento ed espansione delle strutture industriali attuali, afflitti come sono dalla creazione di nuovi posti di occupazione... Le bustarelle fanno miracoli.
   I contadini, molto astutamente (uniformandosi alla desertificazione) per dar modo ai mezzi agricoli di poter eseguirele loro manovre, abbattono le ultime superstiti querce secolari, fratte e tutto ciò che ha sentore di vegetazione. Finalmente... tutto libero, pulito e splendente!.. La terra fertile verrà anch'essa pulita, dilavata e ce la ritroveremo sempre più a valle. I cacciatori agevolano poi questa pulizia etnica, abbattendo gli ultimi esemplari di passeriformi (che ormai hanno
soltanto la forma del passero); le macchie e i boschi, poiché estinti anch'essi,  non possono dunque essere più ripopolati. I cacciatori si troveranno così (finalmente!) disoccupati; a cosa potranno mai sperare... sparare costoro?... Adesso ho capito perché non c'è più gente in campagna... la campagna non esiste più!

Dai vecchi si sente raccontare ...

Dai vecchi si sente raccontare che, ai tempi (della ormai quasi mitica) regina Giovanna (I d'Angiò o II d'Angiò-Durazzo), nella contrada Rejale esistesse un castello (un agglomerato comunque) il quale fu distrutto da un terremoto. Questa storia mi è sempre parsa una leggenda,  frutto di una fervida immaginazione, dato che la descrizione che se ne dà è alquanto apocalittica e, oserei dire però (oggi), abbastanza attendibile, se ha lasciato una traccia così indelebile nella memoria. Il castello fu interamente inghiottito dalla terra che si era squarciata all'improvviso. Conoscendo la zona si può formulare un ipotesi, ovvero: la costruzione fu costruita sopra la sorgente (prima) sotterranea (che conosciamo bene) la quale, col tempo, formò una cavità, una grotta, ove poggiava il castello. Una zona marcia. Il terremoto fece incrinare, spaccò la volta della cavità anzidetta e il castello venne letteralmente inghiottito. Parecchie persone ricordano di aver visto, ove c'è l'attuale sorgente, blocchi murari. Ciò che oggi appare come un dirupo, una volta sarà stato certamente un terreno pianeggiante.

La nominazione delle cose...

La nominazione delle cose e le cose sono eventi importanti che si perdono nel tempo, nello spazio della memoria, e non c'è verso poterle cambiare, indissolubilmente legate a filo doppio. 'A tejelle resterà tejelle non potrà mai diventare pentola; 'a sertaneje non muterà in padella; 'u core non dittongherà in cuore. Une ci'ada sbrejà e non deve prendere una boccata d'aria. I nostri vecchi sembrano estraniarsi dal linguaggio; la loro sarà sempre una
morte doppia : l'incomprensione e il disfacimento fisico.

Quando si parla di dialetto, ...

Quando si parla di dialetto, si deve per forza includervi le condizioni che l'anno prodotto, modificato, condizionato, ecc... Nel dialetto c'è il bello e il brutto, il passato folclorico, la tradizione e la sudditanza; il tutto espresso dall'ambiguità e inderminatezza del testo orale, dalla plurivalenza semantica. Il dialetto lo si abbandona forse anche per questo, come se si volesse dimenticare un passato (di stenti, di sofferenza...) a cui lo sentiamo ineluttabilmente legato. Una soluzione da struzzi si direbbe, si buttano i panni sporchi con tutta la creatura. Ma buttandolo dalla porta esso ritorna dalla finestra. Cucù!... Gli chiediamo addirittura spiegazioni di questa sua re-intrusione, di questo suo eterno ritorno... inconsulto?...

Una bella scoperta venire a sapere...

Una bella scoperta venire a sapere di questa confusione semantica del verbo avé [VEDI il confronto del verbo avé - avere-dovere]. Come se non bastasse ci si mette di mezzo anche il verbo velé.

- i é vute significa io ho avuto, io ho dovuto e io ho voluto [sincope di v(el)ute].
- î é vuta fà significa io ho dovuto fare ma anche ioho voluto fare. Uno scacco all'io in questo meridione di pazzi direbbe Bene. Che c'entra dovere con la volontà?... Se si vuole, si deve; e ciò che si ha, si deve. È la complicazione semantica del Sud che non sa mai cosa vuole (lo deve ecc...) poiché non gli appartiene proprio la volontà. Diremmo sia fatta la sua volontà. Sarà forse per questo che il Sud è così
religioso. Chi mai sarà questo bel signore a cui bisogna fare la sua di volontà?...
Scacco matto!

"E sento che l'io è troppo piccolo per me, qualcosa da me prorompe ostinato..." (Majakovskji).

Da questa indefinizione (direi esistenziale) attinge la religione che ha il suo scopo politico di annichilire. E c'è addirittura qualche rappresentante del Supremo che intima il nò al nichilismo

"Complimentacci, monsignore... acci... Già!"
(C.B.)

Il linguaggio non apparterrà mai all'essere parlante (poiché è istituito a priori) e il dialetto ce ne mostra, nella sua ambiguità semantica (e nell'ambivalenza del sentire), un bell'esempio. 

Per quanto uno faccia di tutto per uscire da questo impasse in-significante, si ritroverà sempre nelle stesse sabbie mobili di prima. Allora?... Depensiamo...

Dipingere. Voglio dipingere... Non si può volere una cosa, se il Signore non vuole. E il Signore ha detto no. Volere, (al Sud) non è potere ma dovere, e tu non devi divertirti a dipingere. È la forza della legalità. Ma tu che vuoi fare?.... Voglio evitarvi, Sua Maesta! Sto già facendo... il conto dei danni che... mi dovreste?... Il condizionale è d'obbligo ... ma dove lo trovo il condizionale nel dialetto se questa forma si confonde col congiuntivo?... È inutile del resto imporsi... insistere... e (così invischiato nell'ambiguità semantica) non sono in grado proprio di imporre delle condizioni... non sono... non devo... volere. Ciò che ho, lo devo; e devo ciò che voglio, ovvero: ciò che devo. Non se ne esce più da questa afasia del linguaggio. 

Non per niente la Mafia è attecchita proprio al Sud facendo leva sull'omertà [lat. humilïtas]. Tacere è meglio che manifestare le proprie intenzioni [volere]. Proprie?... Ma il proprio [avere] è ciò che  devo...

Il dialetto è un documento formidabile, una prova incontrovertibile. Il linguaggio (non mente) è proprio ciò che dice. Non si può (è proibito dalla legge!) dire (o fare) il proprio (volere), pena la pena, il  samsara, l'eterno ritorno, l'autonomia linguistica che ci si rivolta contro. Per dire ciò che si pensa (o sente) si usa un linguaggio
prestabilito; si finisce, così, per dire ciò che non si pensa e pensare a quel che non si dice. Dir-lo?... non lo si potrebbe!...

Il Sud, dell'obiettività non sa che farsene, proprio perché non esiste nel linguaggio la condizione che la possa realizzare. Come si fà ad essere obiettivi se non ci appartiene un volere.