POESIE
DIALETTALI
Tratto da
di Carlo Giordano
La poesia dialettale (la poesia in genere direi)
non va oltre la malinconia esasperante del passato perduto, una cosa molto
debilitante. Se non è un esercizio dilettantesco, di solito si finisce nel
prosaico e nel professionismo. Lamentazione e sterilità. Specchio dei
tempi!... Bisognerebbe smetterla allora con la poesia! Lamentiamoci e basta!...
Sassi ad esempio non è né un dilettante
né un professionale. È un poeta dialettale. Così come lo poteva essere
Oberdan Stingone, anche se penso che abbia scritto soltanto in italiano
aulico, letterario, stile dantesco...
Siamo sempre stati vittime d'una poesia che innanzitutto
si è sempre beotamente illusa d'essere nel discorso autoriale che tramava.
Come se si potesse essere autori di qualcosa! Come se (siamo o no quel che ci
manca?) fosse scontato che l'essere parlante sia nel discorso in fieri
e non s-parlato dal discorso stesso. Qualunque fare dovrebbe essere un fare
altro da ciò che facciamo, (anche volendolo nessuno è autore di niente).
L'esito non coincide con l'intento come l'effetto non è mai la causa...
tratto da l'autointervista fatta a café letterario
Roma 16 maggio 2000
Carmelo Bene
Il dialetto ha una sua struttura
fonico-linguistica che, per certi versi, può assimilarsi a quella
dell'italiano, ma essa ha anche delle sue peculiarità.
1) È artificioso realizzare talvolta un apocope.
Per esempio câne c'abbaje non può trasformarsi in cân
c'abbaje senza snaturare e falsare la fisionomia dialettale, che ha
una sua propria dinamica, strutturata e sedimentata nel tempo morfonologicamente (sic) al meglio, che
vive di per sé. In questo caso, la sonorizzazione consonantica fà sì
che l'apocope risulti alquanto incongruente e fonicamente fastidiosa
...
can c'abbaje
> can g'abbaje
Ma se si traduce esattamente dall'italiano si
può accettare in effetti solo questa pronuncia.
L'apocope si può a volte realizzare o
è più accettabile solo con parole che iniziano per consonate sonora.
- Fin' da
mo' fa l'anne
2) Quasi tutte le parole
dialettali finiscono sempre con la e (schwa) e perciò ci si
accorge spesso della difficoltà che ci sovvengono nel rimare, dovuta
certamente non alla povertà del lessico (tutt'altro che povero!).
Forzare il procedimento della rima
può snaturare dunque la freschezza della parlata dialettale, già strutturata
spontaneamente in maniera poetica; e ciò è ravvisabile, oltre che nel
parlato, anche nelle filastrocche, nei proverbi, nelle cantilene, ecc...
3) La e (schwa) finale, iniziale o interna della
maggior parte delle parole sommata a quelle delle possibili rime crea
quello che noi potremmo chiamare una tipica chiusura monotona continuata
e insistente. La e (schwa) è non solo la vocale
ma anche in assoluto la lettera-suono più usata nel dialetto
sanmartinese.
Il dialetto ha una sua metrica
legata a volte alla lunghezza temporanea delle vocali (o
delle sillabe) dovuta alla musicalità; e il ritmo
dialettale dunque è precipuamente musicale e non metrico.
Se si adatta dunque il sistema metrico italiano classico
al dialetto sanmartinese si può perdere forse qualcosa di
essenziale... Le parole si possono scandire dando alle sillabe uguale valore (monotono)
oppure dandole un valore prettamente musicale (del pentagramma).
Ci si è abituati alla poesia occidentale come monotonia
valoriale, scritta sul foglio, ma c'è anche l'orale che può
disattendere lo scritto e ancor più l'artificio tecnico-formale. Se ci
fosse bisogno di una (ir)regolarità, la si cercherebbe piuttosto nel timbro
e nel ritmo musicale. In questa variazione indefinita, molteplice, sta
lo stacco (e scacco), la «distanza abissale» - direbbe Bene - tra
scritto e orale. La poesia si può recitare a patto che si è consci di fare altro,
divergendo quindi inevitabilmente dallo scritto, e se non si è buon dicitore
(e spesso anche se lo si è) si finisce per degradarla, umiliarla... Lo
scritto possiede la virtù del silenzio che può contenere in nuce una
varietà timbrico-fonica illimitata che, se trasposto nell'orale, può
essere soltanto disatteso in una pluralità altra, diversificata dall'origine.
E questo lo può (poteva, purtroppo!) fare solo un Carmelo Bene.
Se scrivo per es. la parola mare... nel suo silenzio [del
foglio, del muro (sic), ecc...], come il vaso di pandora, ha tutte le infinite
voci e immagini ad essa correlate, poiché la parola mare è pensata,
immaginata, pronunciata e inoltre realizzabile particolarmente da
chiunque; non ha marginalità ma vive di per sé. Una volta
pronunziata perde il suo originario variare infinito-indefinito, il silenzio
virgineo, l'immacolato per assumere valore fonico particolare di chi la
esprime.
- Il silenzio è oro -
La parola è parola-immagine,
suono-immagine e nell'articolarsi orale-fonico si dilania a meno
che non si trasformi in altro. Parlar-la comporta sforzo, volontà e
fatica, contrariamente a immaginar-la.
Le parole-suono nel passaggio dallo scritto
all'orale bisogna che siano re-inventate o dissimilate.
***********
Non c'è stata una grande evoluzione
linguistica del dialetto sanmartinese, almeno non come quella
dell'italiano, fin dal basso Medioevo. La civiltà contadina è stata sempre
la stessa con i suoi problemi, mezzi, luoghi, oggetti comuni, usanze, ecc...
Non si è avuto uno scambio forte culturale e il suo sguardo generalmente non
andava al di là del Basso Molise. Non essendoci stato un mutamento
sostanziale del modo di vivere contadino (e culturale, economico, ecc.)
nemmeno il linguaggio dialettale poteva modificarsi di molto.
Le parole per es. râte (aratro), melengròcche, (g)uelénece,
quetelà, 'ddacchià, ecc... restano tali e quali attraversando
incolumi i secoli. Quasi tutte le parole del vocabolario!... La pronuncia del
dialetto di cinquanta anni fà dovrebbe essere pressappoco come quella del
'200 o del '300.
***********
***********
POVERA TERRA MIJE
(omaggio alla civiltà contadina)
Come intenzione, questa mia
raccolta, è un reportage in chiave poetico-descrittiva della
situazione dialettale paesana: la voce della gente prima di tutto. (Non c'è
nessuna retorica populista in ciò, me ne guarderei bene!). Perché?...
Dialettale significa locale; dunque: la sua gente... Un filmato di eventi
restituiti dalla memoria (inevitabile) allo scritto (d'obbligo).
Scrivere in dialetto, e per di più scrivere in uno minore,
significa per forza riferire il vissuto, che non è soltanto personale ma
soprattuto collettivo (del luogo). In questo caso si usa l'arte poetica
come referente popolare (vox populi). Poiché il dialetto è
invitabilmente legato all'uso comune, alla tradizione locale (non a un élite),
si finisce sempre per dire ciò che si dice e che sta sulla bocca di tutti;
sedimentando un altrove mnemonico, ove la scrittura non viene così ad
imporsi ma viene imposta dall'interno-esterno [io-altro], come un dettato, un
copione già scritto (tramite una scrittura che scrive se stessa) diciamo così,
e che uno tenta di ri-(de)-scrivere svelando(ce)lo.
Spesso si fa finta di ignorare, s'ignora o non
si capisce bene, il dramma dello scarto generazionale attuale, diverso
anni luce dai mutamenti scarsi o mai realizzati nel passato.
La forma del nostro dialetto attuale (quello di fino a quaranta o
cinquantina fà) ha diciamo un'età di quasi mille anni;
Dalla nascita [?] dei dialetti e delle lingue romanze, le tradizioni e
il parlato non hanno mai subito una radicale e sostanziale
evoluzione-involuzione come adesso. Ci sono gli anziani, i vecchi e quelli di
media età (anche se meno) che sono legati ineluttabilmente alla memoria;
e ci sono poi i figli della televisione, i giovani che ormai hanno acquisito
una fisionomia nuova, moderna, asettica, antitradizionale (nel senso
peggiore del termine). Non c'è partigianeria ovviamente, non c'è morale, ma
soltanto la restituzione della memoria.
Dei nostri avi non resta altro che un paese ormai a loro
straniero, o, diversamente: gli stranieri potrebbero essere proprio loro.
Si resta stranieri a tutti gli effetti, comunque. E cosa rimane se non
il presente della memoria, testimone impassibile, indelebile? «Queste...
proprio queste cose indimenticabili...»
I
Nu seme fatte de suonne, ne seme nejende;
ne' ssapeme cchiu a 'ndo è cche stame manghe:
fore o dende, dende o fore (n' g'ìa capi' nejende!).
soltand 'i requorde nostre ce revenne e 'u squorne
de n'arrecanosce cchiù 'u pajésce nostre 'ndiche
de 'na vote... quande jequavame da uajjune
e stavame sembe quendende e 'scì all'addejune;
'mbece mo' tutte tènne e sembe de cchiù vonne,
tanda e tanda cose ca maje ne ttènne nejende.
Nu seme fatte d'areje, e ggià, ne seme
nejende;
seme soltande suonne e cacche ddu' requorde
c'a nnu ce venna 'ngore a vote a vote a mmende
e n' ge fanne rassegnà a 'stu triste destine.
Nu seme sole de passagge, è certe, frastejere
sembrame, ggià, venute da cchìssa qualu monne...
II
Sejende che areje fresche e quand'è doce,
te trasce 'mbette e t'arrecreje 'u core;
volene già 'i rènnele e 'pu tra lore
'i vidi 'ngopp 'i titte e fin 'a croce
d'u cambanare àvet' e 'nzin a 'ngiele fanne
'na festa granne senza paragone.
Graste de sciure 'ngopp 'u ballecone
chelure e 'ddore a tutte l'ôre danne.
'Llegrezze chien' è queste!... Sejende 'ndande
Maste Peppe, belle, senza penzejère,
'nnanz 'a porte, c'u sole, fišch' e 'cande.
Uojje l'areja fresche e bella è 'scì sengere
ca te ve vojje te jirtene 'n gambagne,
'mbece chi té 'i solde sole ce lagne.
III
SEME FRASTEJERE
'Sta ggevendù de mo' ne tté crejanze;
ne penzen' àvete c'a justre, e 'mbece
d'èsse rette, querrett' e respettuse,
te rirene 'mbacce decenne cose
ca te rèstene pu' 'mbrese 'na mende.
N'i sejènde manghe parlà come 'na vote:
parlene 'talejan' e pure giapponese
ca n'i capisce... N'è 'cchiù come allore!
Cumba', seme nu a ecche com'e frastejere
ca leste mo' 'u permesse de soggiorne
quasce ca quasce tocca pure fa'.
Ce vonne forze rembatreja'... ah che squorne!
IV
L'atru juorne stavame jenne fore
che 'ngondre p'a stradelle Maste 'Ndoneje
e sùbbete esce 'u raggenamende.
«'U si c'a 'i nepute soje a scella 'Chele
l'onne pertate 'nu spizeje?... » «Oh madonne...
Povera crestejane!» «.. e quelle ce more!...
...a llà è 'nu carcere... cchi a vo sendì
'i maledezejune ch'i manne a llore!...»
«E che vvu fa 'Ndo'... stame cucce cucce...
cercame de felà.... I solde belle
ce l'onne 'nghiappate e 'u nderesse pure,
l'onne pelate pruopeje bbone bbone
a llà crestejane!...» «Cumba' stame zitte,
parlame a cchiane, ca se ce sèndene,
ponne capì male e magare doppe
nu a llà pure feneme 'ngarcerate:
l'età già a teneme, 'i parejende pure,
cacche bella fregature prima o pu' ...»
«Maste 'Ndo' ne deceme 'ssi fessarije;
va bbene ca va bbene... Meh famme jì,
c'a penzà 'n ge pejjàme cchiù vvelene...»
«E che vu fa!... Oramaje... Ueh... Nen de straccà!...»
«Jame a cchiane a cchiane!...» E pe' te dice...
V
'I me recorde 'ngore, Ohje Lé, allore,
quande stave 'na massarije che pàtreme...
ce stav 'u respette!... sembr 'u bongiorne,
buonaser' e zitt' e quejete mangh' a 'sciata'.
Ogn'e mmena squercione 'mbacci 'u musse
se ne facieve 'i cose come l'iva tu fa'.
Mo' 'mbece 'i fijje te chiamen' a nnome
e n'i pu' manghe pure tequelejà
ca subbete t'arresponnene leste,
c'u cchiù... ca pu' te vann' a denunzejà.
I tejembe so' cagnate!... troppe... preste.
VI
Ce 'llonghene 'i jernate;
Premmavere già vé,
che tanda sciure nate
che so bell' a vedé,
a dda' 'llegrezze e ggioje
a tutte quand 'i ggende,
c'u verde e lustre soje,
pur' a chi ne tté nejende.
|
8
|
|
|
San Geseppe ce
sende
nell'areje; té 'u penzejere
de farce sta quendende.
Pare 'nu sciardenejere
che va 'ccojje nell'orte
fafe e cice e pu' tande
de chilli cose porte;
e llà 'u sejende ca cande. |
16 |
|
|
Fra poche è
Premmavere
e ce rennov 'u monne
l'arej' è orma' fresche e vere
ca tutte fore vonne
jî a 'ccojje jerve e sciure
pe' revestì a vetare,
candanne: «Ddî ce cure
da 'i male e ce té care». |
24 |
|
|
Mettét 'i
'ngoppe, 'i sciure,
'ndo' 'lli cannele stanne,
che luce dann' a 'u mure
e 'u Sande 'llemenanne.
Pertate p'u d'i gijje
d'i rose e tutti 'i cose
che servene p'u fijje
p'a madonn' e p'u spose. |
32 |
|
|
E pu' rendeme
grazeje
a tutt 'a sacra famijje;
pregame ca pu' strazeje
da nu ne trove appijje.
E Sette sonn 'i stelle
che 'ngiele sopa stanne
ca brillene chiù belle
'a vite rennevanne. |
40 |
|
|
E sette so' 'i
peccate
ca 'u dejavele ce tende
e nu t'ame pregate
a ch' isse n' ge fa' nejende.
'Ndande pare ce sende
'u suone d'i cambane...
C'u bammenelle a mmende,
San Geseppe... E lundane |
48 |
|
|
sendeme chiare 'i
vuce,
come se fusse jere,
vedeme chilli cruce,
'i femmene, de nere
vestute, e te requorde
quande javame uajjune,
e orma' cchiù 'n d'u squorde,
pe' porte jenne e pertune. |
56 |
|
|
L'areje sémbre
cchiù serene,
è sciute pure 'u tembe,
e quiste è tutt 'u bene:
«Gessummari!». - «Gessembe!» |
60 |
VII
Ride 'a castagnole e
chiagne
chiagn' e ride e poche scote.
Chiagne e 'llucche e ppu' ce lagne
ride doppe e 'n ge fa vote. |
4 |
|
|
'llucche e
strejepete, che guaje!...
Quand'è vere Di'... se tte 'nghiappe,
te facce passà de Ggiobbe
tutte 'i gua' ca già me dejelle. |
8 |
|
|
Ride e chiagne 'a
castagnole
chiagn' e ride e pu' recchiagne.
Chiagne e 'llucche e ce quenzole.
Oh che lagne!... e che magagne! |
12 |
|
|
È 'nu gua' grosse
'stu fijje
de chi a repejjate n'u sacce.
È demoneje!... e a vvote gijje...
se mme 'ngazze 'u si ch'i facce!... |
16 |
|
|
Ride e chiagne 'a
castagnole,
prima 'a lune e doppe 'u sole;
chiagne e 'llucche - oh che tremende!
Ride e chiagne e mma' quendende. |
20 |
|
|
Ne sacce cchiù c'a fà
e manghe chiù che 'ppenzà:
a vote pare 'na gioje,
n'avete vote 'mbece nòje. |
24 |
|
|
Ride e chiagne 'a
castagnole
'nu poche sta zitte e bbone;
subbete doppe ggià vole.
Ce si n'gappate fejjole! |
28 |
|
|
Oh madonne famm' a
grazeje,
pe 'llu belle bammenelle,
libereme da 'stu strazeje,
ca me pijje già 'u cervelle. |
32 |
|
|
Ggià stejenghe
'qquescì 'bbelite
ca n'u pozze seppertà.
Fallu sta neccone quejete
ca ne mme fa' orma' cchiù cambà. |
36 |
|
|
Ride e chiagne e ma'
è quendende
doppe 'e sole e prime 'è lune
chiagne e 'llucche - oh che termende!
Oh madonne che sfertune! |
40 |
VIII
Tejenghe 'nu mule ch'è 'na maravijje
'a matine rajje e ttutt 'u juorne magne
e sembre stracche sta, e 'a sere ce ripijje,
pu' ca d'u sonne 'i cchiappe 'na bbettagne.
IX
Tire a 'nnanze
tira ' arrete
tir 'u cazze
che te freche.
Tire sotte e
tire sope
tutt'u monne
e sottosope.
Ferme, sode,
ne 'tteqquà
c'a pacienze
po scappà
Mettelu àvete,
n' ge penzà,
ca cchiù 'ngoppe
n' ge po arrevà.
X
SETTE, SETTE COLEPE
« Cumba' 'ndo te ne vejè qquescì de
leve,
che te stanne pe' ccase 'i cane sequetanne?
Come 'nu lépre curre.... ann'ècche a véve,
tejenghe 'nu vine che fa ji candanne ».
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma tu vide a isse come c'è
'mbriscite,
n'u firme manghe che 'na cannenate;
Chissà da 'ndo revé quescì 'nganite,
ro'sce 'mbacce... e sta tutte sedate! »
« Sette, sette cólepe!... »
E ognune c'u 'ngondre e pu 'u
'ddemanne,
responne sembe 'a sòleta canzone,
e tutte appresse 'u llucchene e fanne
de tutte pe' capì qual'è 'a rraggione.
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma firmete 'nu poche a
repesarte
ca te po menì 'na 'ccedende brutte... »
N' ge manghe ggire ca preste reparte,
ferejose, e quescì sembe dice a tutte...
« Sette, sette cólepe!... »
Fa una terate leste fin 'u pajese
e a ggende proccupate c'u demmanne,
'a soleta resposte a pe' palese,
e corr' e corre - n' ge ferme!... - ci'affanne...
« Sette, sette cólepe!... »
« Ah, n'è cchiù isse, l'a pejjate 'u
cervelle
veramende - ma poveru crestejane!...
va sdecenne, té sembe 'lla favelle,
sparle... e nnejend'àvete... n'è cchiù sane... »
« Sette, sette cólepe!... »
Dapu tanda ch'è n'à case 'rrevate ,
a mojje, c'u vede 'sci sedate e strutte,
storte, 'bbelite, ro'sce e senza sciate,
'mbaurite... penze a cacchecosa brutte.
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma parle, dimmelu, che t'è successe?
'a stalle è bresciate, è morte 'u ciucce?..
Ch'i fatte che sejè 'scì reddutte e messe
a lutte pejère?... 'u sacce... è morte 'u ciucce!... »
« Sette, sette cólepe!...
...Ma ne mme dice nejende, ne me dice
nejende, se sapisse... se tu sapisse,
madonne che pahure... » « .... ìa tu dice
'u fatte com'è, senza ca te fisse...»
« Sette, sette cólepe!... »
« ...E bonanotte a tutte 'i senature,
mo' a nghiappate quistu reternelle
e n' ge ferme a cchiù, è ccom 'u mure;
sette colepe e àvete ne favelle... »
« Ohje mojja mî, sapisse che
pahure!... »
«Sci laudate Ddì, ggià î penzave 'a cure...»
« Mentre stave jenne pe' capabballe
m'onne sparate appresse...» «a redalle!... »
« ... Sette, sette cólepe!... »
XI
CHIAGNÈNN 'U MORTE
(mamme e fijje)
« Marìtem' è
ormaje morte
e mo' ccom' ejja fà?...
e cchi c'i vo magnà
'i precoche dell'orte?... »
« Ma m'i magne ije, ma! »
« Oh cche delore 'mbette
e mo' come ejja fà?...
e cchi c'i vo magnà
tutte chilli chembejette ?... »
« Ma m'i magne ije, ma! ».
« So' 'ccise e senza voce
e mo' come ejja fà?...
e cchi a vo mo' pertà
- che guaje! - 'sta grossa croce?... »
« Ma a puorte tu, ma! ».
« So' messe pruopeje 'ngroce
e mo' come ejja fà?...
e cchi ce va a petà
'lla belle e grossa noce?... »
« Ma ce vejè pu' tu, ma! ».
« Sta desgrazeje m'a 'ccise
e mo' come ejja fà?...
e chi ce va a ssarchià
e rreccojje tutte 'lli cice?... ».
« Ma ce vejè pu' tu, ma! ».
« Oh che sbenture e mbicce
e mo' come ejja fà?...
e chi ce l'ada mmagnà
tutte
'lla savecicce?... »
« Ma m'a magne ije, ma! »
XII
'A CEMMENEJERE
È bella 'a cemmenejere
c'u foche che rescalle;
'u tembe fore è nere,
ggià sciòcche capabballe.
Faceme ddu' castagne
e ci magname arroste;
'u tembe tande 'nge cagne
e nu stame' a ècche a pposte,
pure fina 'a Nnatale.
Candam' e ce veveme
'nu vinèlle ca vale
c'a ècche nen ge trème;
bbecin' a quistu foche,
'llegre e senza penzejere,
qquendame. E a ppoche a ppoche
ce fà scurde, vé a sere...
Ma a ècche pare juorne
che questa cemmenejere,
che 'llume tutt'attuorne
che pare Premmavere.
|