Dialetto sanmartinese
 
Grammatica del dialetto sanmartinese, proverbi, modi di dire, usi e costumi della civiltà contadina a San Martino in Pensilis
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martedì 15 gennaio 2013

POESIE DIALETTALI

Tratto da
di Carlo Giordano
La poesia dialettale (la poesia in genere direi) non va oltre la malinconia esasperante del passato perduto, una cosa molto debilitante. Se non è un esercizio dilettantesco, di solito si finisce nel prosaico e nel professionismo. Lamentazione e sterilità.  Specchio dei tempi!... Bisognerebbe smetterla allora con la poesia! Lamentiamoci e basta!...
Sassi ad esempio non è né un dilettante né un professionale. È un poeta dialettale. Così come lo poteva essere Oberdan Stingone, anche se penso che abbia scritto soltanto in italiano aulico, letterario, stile dantesco...  
Siamo sempre stati vittime d'una poesia che innanzitutto si è sempre beotamente illusa d'essere nel discorso autoriale che tramava. Come se si potesse essere autori di qualcosa! Come se (siamo o no quel che ci manca?) fosse scontato che l'essere parlante sia nel discorso in fieri e non s-parlato dal discorso stesso. Qualunque fare dovrebbe essere un fare altro da ciò che facciamo, (anche volendolo nessuno è autore di niente). L'esito non coincide con l'intento come l'effetto non è mai la causa... 
tratto da l'autointervista fatta a café letterario
 Roma 16 maggio 2000
Carmelo Bene

TANTO TEMPO E POCO FA
Il dialetto ha una sua struttura fonico-linguistica che, per certi versi, può assimilarsi a quella dell'italiano, ma essa ha anche delle sue peculiarità.
   1) È artificioso realizzare talvolta un apocope. Per esempio
câne c'abbaje non può trasformarsi in cân c'abbaje senza snaturare e falsare la fisionomia dialettale, che ha una sua propria dinamica, strutturata e sedimentata nel tempo morfonologicamente (sic) al meglio, che vive di per sé. In questo caso, la sonorizzazione consonantica fà sì che l'apocope risulti alquanto incongruente e fonicamente fastidiosa ...
can c'abbaje > can g'abbaje
Ma se si traduce esattamente dall'italiano si può accettare in effetti solo questa pronuncia.
L'apocope si può a volte realizzare o è più accettabile solo con parole che iniziano per consonate sonora
- Fin' da mo' fa l'anne 
   2) Quasi tutte le parole dialettali finiscono sempre con la e (schwa) e perciò ci si accorge spesso della difficoltà che ci sovvengono nel rimare, dovuta certamente non alla povertà del lessico (tutt'altro che povero!).
   Forzare il procedimento della rima può snaturare dunque la freschezza della parlata dialettale, già strutturata spontaneamente in maniera poetica; e ciò è ravvisabile, oltre che nel parlato, anche nelle filastrocche, nei proverbi, nelle cantilene, ecc...

  3) La e (schwa) finale, iniziale o interna della maggior parte delle parole sommata a quelle delle possibili rime crea quello che noi potremmo chiamare una tipica chiusura monotona continuata e insistente. La e (schwa) è non solo la vocale ma anche in assoluto la lettera-suono più usata nel dialetto sanmartinese.   
   Il dialetto ha una sua metrica legata a volte alla lunghezza temporanea delle vocali (o delle sillabe) dovuta alla musicalità; e il ritmo dialettale dunque è precipuamente musicale e non metrico.
  Se si adatta dunque il sistema metrico italiano classico al dialetto sanmartinese si può perdere forse qualcosa di essenziale... Le parole si possono scandire dando alle sillabe uguale valore (monotono) oppure dandole un valore prettamente musicale (del pentagramma).
   Ci si è abituati alla poesia occidentale come monotonia valoriale, scritta sul foglio, ma c'è anche l'orale che può disattendere lo scritto e ancor più l'artificio tecnico-formale. Se ci fosse bisogno di una (ir)regolarità, la si cercherebbe piuttosto nel timbro e nel ritmo musicale. In questa variazione indefinita, molteplice, sta lo stacco (e scacco), la «distanza abissale» - direbbe Bene - tra scritto e orale. La poesia si può recitare a patto che si è consci di fare altro, divergendo quindi inevitabilmente dallo scritto, e se non si è buon dicitore (e spesso anche se lo si è) si finisce per degradarla, umiliarla... Lo scritto possiede la virtù del silenzio che può contenere in nuce una varietà timbrico-fonica illimitata che, se trasposto nell'orale, può essere soltanto disatteso in una pluralità altra, diversificata dall'origine. E questo lo può (poteva, purtroppo!) fare solo un Carmelo Bene.

   Se scrivo per es. la parola mare... nel suo silenzio [del foglio, del muro (sic), ecc...], come il vaso di pandora, ha tutte le infinite voci e immagini ad essa correlate, poiché la parola mare è pensata, immaginata, pronunciata e inoltre realizzabile particolarmente da chiunque; non ha marginalità ma vive di per sé. Una volta pronunziata perde il suo originario variare infinito-indefinito, il silenzio virgineo, l'immacolato per assumere valore fonico particolare di chi la esprime. 
- Il silenzio è oro -
  La parola è parola-immagine, suono-immagine e nell'articolarsi orale-fonico si dilania a meno che non si trasformi in altro. Parlar-la comporta sforzo, volontà e fatica, contrariamente a immaginar-la.
    Le parole-suono nel passaggio dallo scritto all'orale bisogna che siano re-inventate o dissimilate.

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Non c'è stata una grande evoluzione linguistica del dialetto sanmartinese, almeno non come quella dell'italiano, fin dal basso Medioevo. La civiltà contadina è stata sempre la stessa con i suoi problemi, mezzi, luoghi, oggetti comuni, usanze, ecc... Non si è avuto uno scambio forte culturale e il suo sguardo generalmente non andava al di là del Basso Molise. Non essendoci stato un mutamento sostanziale del modo di vivere contadino (e culturale, economico, ecc.) nemmeno il linguaggio dialettale poteva modificarsi di molto.
   Le parole per es. râte (aratro), melengròcche, (g)uelénece, quetelà, 'ddacchià, ecc... restano tali e quali attraversando incolumi i secoli. Quasi tutte le parole del vocabolario!... La pronuncia del dialetto di cinquanta anni fà dovrebbe essere pressappoco come quella del '200 o del '300.

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POVERA TERRA MIJE
(omaggio alla civiltà contadina)
   Come intenzione, questa mia raccolta, è un reportage in chiave poetico-descrittiva della situazione dialettale paesana: la voce della gente prima di tutto. (Non c'è nessuna retorica populista in ciò, me ne guarderei bene!). Perché?... Dialettale significa locale; dunque: la sua gente... Un filmato di eventi restituiti dalla memoria (inevitabile) allo scritto (d'obbligo).
  Scrivere in dialetto, e per di più scrivere in uno minore, significa per forza riferire il vissuto, che non è soltanto personale ma soprattuto collettivo (del luogo). In questo caso si usa l'arte poetica come referente popolare (vox populi). Poiché il dialetto è invitabilmente legato all'uso comune, alla tradizione locale (non a un élite), si finisce sempre per dire ciò che si dice e che sta sulla bocca di tutti; sedimentando un altrove mnemonico, ove la scrittura non viene così ad imporsi ma viene imposta dall'interno-esterno [io-altro], come un dettato, un copione già scritto (tramite una scrittura che scrive se stessa) diciamo così, e che uno tenta di ri-(de)-scrivere svelando(ce)lo.
 
      Spesso si fa finta di ignorare, s'ignora o non si capisce bene, il dramma dello scarto generazionale attuale, diverso anni luce dai mutamenti scarsi o mai realizzati nel passato.
   La forma del nostro dialetto attuale (quello di fino a quaranta o cinquantina fà) ha diciamo un'età di quasi mille anni;
  Dalla nascita [?] dei dialetti e delle lingue romanze, le tradizioni e il parlato non hanno mai subito una radicale e sostanziale evoluzione-involuzione come adesso. Ci sono gli anziani, i vecchi e quelli di media età (anche se meno) che sono legati ineluttabilmente alla memoria; e ci sono poi i figli della televisione, i giovani che ormai hanno acquisito una fisionomia nuova, moderna, asettica, antitradizionale (nel senso peggiore del termine). Non c'è partigianeria ovviamente, non c'è morale, ma soltanto la restituzione della memoria.
   Dei nostri avi non resta altro che un paese ormai a loro straniero, o, diversamente: gli stranieri potrebbero essere proprio loro.
  Si resta stranieri a tutti gli effetti, comunque. E cosa rimane se non il presente della memoria, testimone impassibile, indelebile? «Queste... proprio queste cose indimenticabili...» 
  
I
Nu seme fatte de suonne, ne seme nejende;
ne' ssapeme cchiu a 'ndo è cche stame manghe:
fore o dende, dende o fore (n' g'ìa capi' nejende!).
soltand 'i requorde nostre ce revenne e 'u squorne
de n'arrecanosce cchiù 'u pajésce nostre 'ndiche
de 'na vote... quande jequavame da uajjune
e stavame sembe quendende e 'scì all'addejune;
'mbece mo' tutte tènne e sembe de cchiù vonne,
tanda e tanda cose ca maje ne ttènne nejende.
Nu seme fatte d'areje, e ggià, ne seme nejende;
seme soltande suonne e cacche ddu' requorde
c'a nnu ce venna 'ngore a vote a vote a mmende
e n' ge fanne rassegnà a 'stu triste destine.
Nu seme sole de passagge, è certe, frastejere
sembrame, ggià, venute da cchìssa qualu monne...


  
II
Sejende che areje fresche e quand'è doce,
te trasce 'mbette e t'arrecreje 'u core;
volene già 'i rènnele e 'pu tra lore
'i vidi 'ngopp 'i titte e fin 'a croce

d'u cambanare àvet' e 'nzin a 'ngiele fanne
'na festa granne senza paragone.
Graste de sciure 'ngopp 'u ballecone
chelure e 'ddore a tutte l'ôre danne.

'Llegrezze chien' è queste!... Sejende 'ndande
Maste Peppe, belle, senza penzejère,
'nnanz 'a porte, c'u sole, fišch' e 'cande.

Uojje l'areja fresche e bella è 'scì sengere
ca te ve vojje te jirtene 'n gambagne,
'mbece chi té 'i solde sole ce lagne.

III
SEME FRASTEJERE
'Sta ggevendù de mo' ne tté crejanze;
ne penzen' àvete c'a justre, e 'mbece
d'èsse rette, querrett' e respettuse,
te rirene 'mbacce decenne cose
ca te rèstene pu' 'mbrese 'na mende.
N'i sejènde manghe parlà come 'na vote:
parlene 'talejan' e pure giapponese
ca n'i capisce... N'è 'cchiù come allore!
Cumba', seme nu a ecche com'e frastejere
ca leste mo' 'u permesse de soggiorne
quasce ca quasce tocca pure fa'.
Ce vonne forze rembatreja'... ah che squorne!

IV
L'atru juorne stavame jenne fore
che 'ngondre p'a stradelle Maste 'Ndoneje
e sùbbete esce 'u raggenamende.
«'U si c'a 'i nepute soje a scella 'Chele
l'onne pertate 'nu spizeje?... » «Oh madonne...
Povera crestejane!» «.. e quelle ce more!...
...a llà è 'nu carcere... cchi a vo sendì
'i maledezejune ch'i manne a llore!...»
«E che vvu fa 'Ndo'... stame cucce cucce...
cercame de felà.... I solde belle
ce l'onne 'nghiappate e 'u nderesse pure,
l'onne pelate pruopeje bbone bbone
a llà crestejane!...» «Cumba' stame zitte,
parlame a cchiane, ca se ce sèndene,
ponne capì male e magare doppe
nu a llà pure feneme 'ngarcerate:
l'età già a teneme, 'i parejende pure,
cacche bella fregature prima o pu' ...»
«Maste 'Ndo' ne deceme 'ssi fessarije;
va bbene ca va bbene... Meh famme jì,
c'a penzà 'n ge pejjàme cchiù vvelene...»
«E che vu fa!... Oramaje... Ueh... Nen de straccà!...»
«Jame a cchiane a cchiane!...» E pe' te dice...

V
'I me recorde 'ngore, Ohje Lé, allore,
quande stave 'na massarije che pàtreme...
ce stav 'u respette!... sembr 'u bongiorne,
buonaser' e zitt' e quejete mangh' a 'sciata'.
Ogn'e mmena squercione 'mbacci 'u musse
se ne facieve 'i cose come l'iva tu fa'.
Mo' 'mbece 'i fijje te chiamen' a nnome
e n'i pu' manghe pure tequelejà
ca subbete t'arresponnene leste,
c'u cchiù... ca pu' te vann' a denunzejà.
I tejembe so' cagnate!... troppe... preste.

VI
 Ce 'llonghene 'i jernate;
Premmavere già vé,
che tanda sciure nate
che so bell' a vedé,
  a dda' 'llegrezze e ggioje
a tutte quand 'i ggende,
c'u verde e lustre soje,
pur' a chi ne tté nejende.







8
  San Geseppe ce sende
nell'areje; té 'u penzejere
de farce sta quendende.
Pare 'nu sciardenejere
  che va 'ccojje nell'orte
fafe e cice e pu' tande
de chilli cose porte;
e llà 'u sejende ca cande.







16
  Fra poche è Premmavere
e ce rennov 'u monne
l'arej' è orma' fresche e vere
ca tutte fore vonne
  jî a 'ccojje jerve e sciure
pe' revestì a vetare,
candanne: «Ddî ce cure
da 'i male e ce té care». 







24
  Mettét 'i 'ngoppe, 'i sciure,
'ndo' 'lli cannele stanne,
che luce dann' a 'u mure
e 'u Sande 'llemenanne.
  Pertate p'u d'i gijje
d'i rose e tutti 'i cose
che servene p'u fijje
p'a madonn' e p'u spose.







32
  E pu' rendeme grazeje
a tutt 'a sacra famijje;
pregame ca pu' strazeje
da nu ne trove appijje.
  E Sette sonn 'i stelle
che 'ngiele sopa stanne
ca brillene chiù belle
'a vite rennevanne.







40
  E sette so' 'i peccate
ca 'u dejavele ce tende
e nu t'ame pregate
a ch' isse n' ge fa' nejende.
   'Ndande pare ce sende
'u suone d'i cambane...
C'u bammenelle a mmende,
San Geseppe... E lundane







48
  sendeme chiare 'i vuce,
come se fusse jere,
vedeme chilli cruce,
'i femmene, de nere
  vestute, e te requorde
quande javame uajjune,
e orma' cchiù 'n d'u squorde,
pe' porte jenne e pertune.







56
  L'areje sémbre cchiù serene,
è sciute pure 'u tembe,
e quiste è tutt 'u bene:
«Gessummari!». - «Gessembe!»



60

 

VII
Ride 'a castagnole e chiagne
chiagn' e ride e poche scote.
Chiagne e 'llucche e ppu' ce lagne
ride doppe e 'n ge fa vote.



4
'llucche e strejepete, che guaje!...
Quand'è vere Di'... se tte 'nghiappe,
te facce passà de Ggiobbe
tutte 'i gua' ca già me dejelle.



8
Ride e chiagne 'a castagnole
chiagn' e ride e pu' recchiagne.
Chiagne e 'llucche e ce quenzole.
Oh che lagne!... e che magagne!



12
È 'nu gua' grosse 'stu fijje
de chi a repejjate n'u sacce.
È demoneje!... e a vvote gijje...
se mme 'ngazze 'u si ch'i facce!...



16
  
Ride e chiagne 'a castagnole,
prima 'a lune e doppe 'u sole;
chiagne e 'llucche - oh che tremende!
Ride e chiagne e mma' quendende.



20
Ne sacce cchiù c'a fà
e manghe chiù che 'ppenzà:
a vote  pare 'na gioje,
n'avete vote 'mbece nòje.



24
Ride e chiagne 'a castagnole
'nu poche sta zitte e bbone;
subbete doppe ggià vole.
Ce si n'gappate fejjole!



28
Oh madonne famm' a grazeje,
pe 'llu belle bammenelle,
libereme da 'stu strazeje,
ca me pijje già 'u cervelle.



32
Ggià stejenghe 'qquescì 'bbelite
ca n'u pozze seppertà.
Fallu sta neccone quejete
ca ne mme fa' orma' cchiù cambà.



36
Ride e chiagne e ma' è quendende
doppe 'e sole e prime 'è lune
chiagne e 'llucche - oh che termende!
Oh madonne che sfertune!



40



VIII
Tejenghe 'nu mule ch'è 'na maravijje
'a matine rajje e ttutt 'u juorne magne
e sembre stracche sta, e 'a sere ce ripijje,
pu' ca d'u sonne 'i cchiappe 'na bbettagne.


IX
Tire a 'nnanze
tira ' arrete
tir 'u cazze
che te freche.
Tire sotte e
tire sope
tutt'u monne
e sottosope.
Ferme, sode,
ne 'tteqquà
c'a pacienze
po scappà
Mettelu àvete,
n' ge penzà,
ca cchiù 'ngoppe
n' ge po arrevà.

 
 X
SETTE, SETTE COLEPE 
« Cumba' 'ndo te ne vejè qquescì de leve,
che te stanne pe' ccase 'i cane sequetanne?
Come 'nu lépre curre.... ann'ècche a véve,
tejenghe 'nu vine che fa ji candanne ».
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma tu vide a isse come c'è 'mbriscite,
n'u firme manghe che 'na cannenate;
Chissà da 'ndo revé quescì 'nganite,
ro'sce 'mbacce... e sta tutte sedate! »
« Sette, sette cólepe!... »
E ognune c'u 'ngondre e pu 'u 'ddemanne,
responne sembe 'a sòleta canzone,
e tutte appresse 'u llucchene e fanne
de tutte pe' capì qual'è 'a rraggione.
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma firmete 'nu poche a repesarte
ca te po menì 'na 'ccedende brutte... »
N' ge manghe ggire ca preste reparte,
ferejose, e quescì sembe dice a tutte...
« Sette, sette cólepe!... »
Fa una terate leste fin 'u pajese
e a ggende proccupate c'u demmanne,
'a soleta resposte a pe' palese,
e corr' e corre - n' ge ferme!... - ci'affanne...
« Sette, sette cólepe!... »
« Ah, n'è cchiù isse, l'a pejjate 'u cervelle
veramende - ma poveru crestejane!...
va sdecenne, té sembe 'lla favelle,
sparle... e nnejend'àvete... n'è cchiù sane... »
« Sette, sette cólepe!... »
Dapu tanda ch'è n'à case 'rrevate ,
a mojje, c'u vede 'sci sedate e strutte,
storte, 'bbelite, ro'sce e senza sciate,
'mbaurite... penze a cacchecosa brutte.
« Sette, sette cólepe!... »
« Ma parle, dimmelu, che t'è successe?
'a stalle è bresciate, è morte 'u ciucce?..
Ch'i fatte che sejè 'scì reddutte e messe
a lutte pejère?... 'u sacce... è morte 'u ciucce!... »
« Sette, sette cólepe!...
...Ma ne mme dice nejende, ne me dice
nejende, se sapisse... se tu sapisse,
madonne che pahure... » « .... ìa tu dice
'u fatte com'è, senza ca te fisse...»
« Sette, sette cólepe!... »
« ...E bonanotte a tutte 'i senature,
mo' a nghiappate quistu reternelle
e n' ge ferme a cchiù, è ccom 'u mure;
sette colepe e àvete ne favelle... »
« Ohje mojja mî, sapisse che pahure!... »
«Sci laudate Ddì, ggià î penzave 'a cure...»
« Mentre stave jenne pe' capabballe
m'onne sparate appresse...» «a redalle!... »
« ... Sette, sette cólepe!... »

  XI
CHIAGNÈNN 'U MORTE
(mamme e fijje)
« Marìtem' è ormaje morte
e mo' ccom' ejja fà?...
e cchi c'i vo magnà
'i precoche dell'orte?... »
« Ma m'i magne ije, ma! »
« Oh cche delore 'mbette
e mo' come ejja fà?...
e cchi c'i vo magnà
tutte chilli chembejette ?... »
« Ma m'i magne ije, ma! ».
« So' 'ccise e senza voce
e mo' come ejja fà?...
e cchi a vo mo' pertà
- che guaje! - 'sta grossa croce?... »
« Ma a puorte tu, ma! ».
« So' messe pruopeje 'ngroce
e mo' come ejja fà?...
e cchi ce va a petà
'lla belle e grossa noce?... »
« Ma ce vejè pu' tu, ma! ».
« Sta desgrazeje m'a 'ccise
e mo' come ejja fà?...
e chi ce va a ssarchià
e rreccojje tutte 'lli cice?...  ». 
« Ma ce vejè pu' tu, ma! ».
« Oh che sbenture e mbicce
e mo' come ejja fà?...
e chi ce l'ada mmagnà
tutte 'lla savecicce?...  » 
« Ma m'a magne ije, ma! »
   
 XII
'A CEMMENEJERE
È bella 'a cemmenejere
c'u foche che rescalle;
'u tembe fore è nere,
ggià sciòcche capabballe.
Faceme ddu' castagne
e ci magname arroste;
'u tembe tande 'nge cagne
e nu stame' a ècche a pposte,
pure fina 'a Nnatale.
Candam' e ce veveme
'nu vinèlle ca vale
c'a ècche nen ge trème;
bbecin' a quistu foche,
'llegre e senza penzejere,
qquendame. E a ppoche a ppoche
ce fà scurde, vé a sere...
Ma a ècche pare juorne
che questa cemmenejere,
che 'llume tutt'attuorne
che pare Premmavere.

mercoledì 26 dicembre 2012

Pier Paolo Pasolini parla della lingua italiana




Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà.

(Pier Paolo Pasolini, Dialetto e poesia popolare, 1951)

martedì 1 dicembre 2009

Alcune ipotesi sull'origine di San Martino

Il Tria, riportando quando scrive l'abate Giambattista Polidori, ci segnala che i Goti distrussero Cliternia (ubicata vicino al torrente Saccione) e che alcuni abitanti, sottrattisi alla furia distruttrice dei barbari, trovarono rifugio sopra un colle ove avrebbero edificato una chiesetta votiva a San Martino, vescovo di  Tour, venerato in tutta Europa. La data della distruzione di Cliternia, sempre secondo il Tria, è il 495 d. C. e trova conferma anche in altri storici che fanno risalire l'insediamento del colle tra la fine del V e l'inizio VI sec. d. C.
   Un dubbio che può sorgere spontaneo è: perché costruire così lontano da Cliternia?... Essa poteva benissimo essere una buona cava di materiale edile già pronto per l'uso, come è sempre accaduto nel medioevo, e anche dopo.
   In un attestazione del papa Pasquale II [1099-1118] mandato all'abate di S. Sofia di Benevento viene indicata la chiesa di S. Martini Episcopi in Biferno, attestazione riconfermata da Anacleto II [morto nel 1143]. 
   Dati alquanto lacunosi. Il dubbio è che sebbene il Biferno lambisce il vasto territorio sanmartinese (il più vasto del Molise) è pur abbastanza lontano, anche come un possibile eponimo che possa identificare il paese. Un altra ipotesi che si potrebbe fare è questa: si può considerare la possibilità che ci fossero uno, due o più piccoli agglomerati distanti fra loro, e forse nemmeno posti sul colle attuale. Di terremoti ce ne saranno stati e la distruzione di qualche casa o chiesetta consentì così lo spostamento nello spazio fino ad arrivare al colle attuale. La posizione sul territorio, a quei tempi, era una cosa prioritaria e costruire in pianura significava essere più esposti, quindi la plausibilità della scelta di un colle era più saggia ed appropriata. Però qualche casa non fa una città. La possibilità che gli abitanti, inizialmente (per i primi secoli) vivessero sparsi per le campagne, in tuguri e in piccole abitazioni, non è da escludere. Dopo la distruzione di Cliternia il paese avrebbe potuto nascere a tutti gli effetti più di qualche secolo dopo quel tragico evento; pochi abitanti scampati non fanno una città e così sparsi per il territorio, insieme ai locali, il loro numero aumentò. Di monasteri ce n'erano e quindi per i pochi abitanti di allora il rifugio in caso di pericolo era assicurato. Il problema forse giunse quando la popolazione del contado divenne rilevante e così si iniziò a costruire sul colle o altrove.
   Sembra che nella zona ci sia stata una cospicua presenza benedettina che aveva come centro San Martino a cui erano subalterni: Santa Maria di Casalpiano presso il torrente saccione e il monastero di San Felice.
   Quindi l'ipotesi che San Martino come cittadina sia nata verso l'anno mille o oltre e che prima di allora era soltanto un distretto ecclesiastico non sembra poi tanto campata in aria. La distruzione di Cliternia avrebbe così creato, secondo questa nostra ipotesi, soltanto degli abitanti sparsi per il territorio che secoli dopo, per il crescere del loro numero e per concessione del monastero (probabilmente San Felice), ebbero il loro territorio è uno spazio attorno alla chiesetta ove costruire
l'abitato. Sicuramente la pincera funzionò a pieno regime e sarà databile proprio a questo periodo, forse anche prima. A meno che essa forse iniziò a funzionare dopo uno spostamento di un certo centro abitato. Si può, continuando questa ipotesi, presumere che gli abitanti del circondario inizialmente avessero edificato nell'attuale posto ove c'è la contrada di Castel Vecchio, ovvero sopra la Pincera. Anche questo era un colle simile a quello sanmartinese, difeso da Nord e Nord-Ovest dalla conformazione del terreno a dirupo. Il toponimo Castel vecchio dà conferma di una possibile presenza di un centro abitato in questa zona. Può darsi che San Martino inizialmente era proprio la Pincera con le sue fornaci alle quali chiunque della zona vi attingeva materiale, compreso il monastero. Nacque inizialmente dalla fusione di artigiani del luogo: addetti alle fornaci, fabbri, falegnami, mugnai, contadini ...
   Con l'asportazione continuata del materiale argilloso, il paese Castel Vecchio non poteva che essere spostato più su, verso la chiesetta, ove già iniziava gradualmente a formarsi qualche piccolo agglomerato urbano attorno.
   Ci sarà stata una dimora fortificata di qualche signorotto. La contrada Rejale col suo nome dovrebbe far riferimento a un palazzo... medioevale?... Nella zona ci sarebbe stata, comunque, la possibilità di rifugio per gli abitanti in caso di pericolo. Non bisogna dimenticare che il rapporto servo-padrone nel Medioevo, consentiva agli abitanti del contado di rifugiarsi entro le mura del castello (o in un monastero) in caso di pericolo. Insomma la nascita immediata di San Martino dopo la distruzione di Cliternia potrebbe essere infondata. Sicuramente saranno passati
diversi secoli prima della nascita effettiva del paese, ovvero Mezzaterra.

   Dopo l'anno mille il paese non era ancora definito, non era un unità, un centro abitato unitario, era qua e là, con i centri più grandi magari  sul colle sanmartinese e quello della Pincera. San Martino era un contado la cui maggioranza delle abitazioni erano case di campagna, oltre ai conventi e al palazzo (o palazzi) del signorotto.

   Questo frazionamento, con l'arrivo degli albanesi, fece avvertire la sua fragilità e gli abitanti sentirono il forte bisogno di crearsi davvero una città; così nacque (o si ingrandì vistosamente) il paese vecchio: Mezzaterra.
   Evidentemente il nome indicherebbe una spartizione territoriale e gli abitanti si videro costretti a creare un luogo definito per evitare fastidi da questi stranieri in terra loro. Le carte le giocavano gli uomini di potere, i grandi di allora, e i sanmartinesi da soli non avrebbero potuto far niente contro le decisioni venute dall'alto. Quindi, i primi anni (o secoli che dir si voglia) sarebbero stati intrisi di rancore verso questo abuso ed espropriazione territoriale.
   Nella mia modesta e breve esperienza terrena, da infante e adolescente, ricordo le botte che i giovani sanmartinesi, irruenti, si scambiavano con gli albanesi di Chieuti, solo per il fatto di essere albanesi o per delle quisquilie. Il forestiero, il diverso, sembra che non abbia avuto buona accoglienza e attecchito nel cuore sincero del sanmartinese. Un'atavica insofferenza per il torto anzidetto subito. La spartizione territoriale di allora, facendola i padroni, per questi era completamente indifferente che il servo fosse albanese oppure sanmartinese; cosa che per quest'ultimo invece faceva eccome la differenza. La Corsa dei Carri stranamente, oltre che a San Martino, viene fatta anche nei vicini paesi albanesi limitrofi: Portocannone, Ururi, Chieuti. Ma non la si fa a Campomarino (paese della stessa origine albanese) che sta più in là di Portocannone e più vicino al mare e al circondario di Termoli. La corsa non c'è nemmeno a Montecilfone che è troppo distante territorialmente e dunque lontanissimo dalle vicende della spartizione territoriale anzidetta. Guglionesi, oltre il Biferno, sebbene non sia albanese, nemmeno pratica la corsa dei carri. Allo stesso modo Larino, sebbene ci siano delle feste con sfilate di carri trainati da buoi. Evidentemente la Corsa dei Carri propriamente detta, come appare oggi, ha qualcosa a che fare con la venuta degli albanesi nel nostro territorio e, poiché sembra alquanto improbabile farla risalire a un importazione oltremare, possiamo pensare giustamente che essa rappresenti un compromesso, un accettazione reciproca. [Un po' come avviene oggi nelle manifestazioni da parata fra India e Pakistan]. La corsa dei carri rappresentò un vincolo ai patti della spartizione territoriale.
   Penso che il carattere duro, a volte spietato, del sanmartinesesi sia forgiato proprio in base a quell'evento. È ovvio che oggi la questione è irrilevante, come può esserlo una goccia d'acqua in un bicchiere d'acqua, ma nei tempi andati doveva essere qualcosa di veramente importante, determinante. La corsa è apparsa in quel periodo su una tradizione precedente del luogo, forse simile a quella larinese. La gara subentra con l'arrivo degli albanesi. Precedentemente è probabile che ci potesse essere soltanto una processione di carri trainati da buoi, oppure una corsa senza gara. E come tutte le cose tradizionali (dialetto soprattutto) si perde, evolvendosi a ritroso, nel tempo, nell'immaginario religioso osco-sannitico.

   Il medioevo come si sa è caratterizzato dalla prolifica costruzione di rocche, castelli, conventi e la chiesa giocava un ruolo determinate nei conflitti di allora. La nostra zona, oltre ad essere stata invasa dai goti, passò poi ai longobardi, ai normanni, agli svevi, vide passare le orde degli ungari, scorrerie saracene, ecc... insomma era una zona abbastanza movimentata. Verso il mille doveva apparire come un pullulare di case di campagna, boschi, monasteri, rocche, palazzi di signorotti locali. Sebbene non ci fu, come al Nord, la formazione di una vita comunale vera e propria, si deve considerare la vita medioevale che continuava dopo il mille, con al centro il palazzo del signorotto, o il monastero, cardine di tutta l'attività che ivi si svolgeva.

   Nel periodo appena seguente le invasioni barbariche di certo il colle doveva apparire all'occasionale viaggiatore come un territorio per lo più boschivo e incolto, i cui abitanti sparsi nel circondario forse, soltanto per necessità, si erano dedicati all'agricoltura. Di certo non erano tutti cliterniani. Le poche capanne formarono nel tempo un piccolo villaggio e così, solo dopo il mille e rotti, si inizia a parlare un luogo chiamato San Martino in PLuogo però non vuol dire paese.

   La civiltà contadina sanmartinese rimase certamente scossa, colta alla sprovvista dall'arrivo degli arbresh. Del resto la popolazione, proprio perché dedita alla vita rurale, viveva dispersa per le campagne e non sentiva ancora il bisogno di un agglomerato urbano che la contenesse o la proteggesse. In caso di pericolo c'era sempre la possibilità di rifugiarsi nei conventi o nei palazzi dei signorotti.
   Probabilmente il colle poteva avere soltanto qualche bottega: da falegname, da fabbro-maniscalco, un mulino, mentre per la fabbrica di mattoni e coppi c'era la Pincera. L'economia curtense ancora regnava nella zona e gli scambi avvenivano sempre al suo interno, una comunità autosufficiente, tutto ciò di cui si aveva bisogno si produceva e si consumava in campagna. Del resto vi immaginate a quei tempi i contadini, sparsi per un vasto territorio, come quello sanmartinese, avessero voglia di ritornare, dopo il loro duro lavoro giornaliero, al paese, con i mezzi (e strade sterrate) che c'erano allora!
   San Martino si può dire che sia nata proprio con l'arrivo degli albanesi, come se di colpo ci si è accorti di avere un identità, se non altro una necessità di colpo avvertita: quella di difendersi dallo straniero. Almeno così l'animo popolare avvertiva questa intrusione.
   La nascita del paese verso il XV-XVI sec. è anche avallata dal fatto che, nei documenti o nelle cronache di allora, le catastrofi naturali, come i terremoti, antecedenti a questo periodo (per es. quello che distrusse completamente Ururi, Portocanduni, Magliano, Maglianello, Campomarino,... nel 1456), accaduti nella zona, non registrano la distruzione, o la menomazione strutturale di un paese che stesse sopra il nostro colle. Se il suo circondario, compresi i diversi paesi, erano stati distrutti perché non è stata  riferita la distruzione o almeno il danneggiamento di un centro che si chiamasse San Martino?... Semplicemente perché non esisteva e, ciò che non esiste, non può essere danneggiato o distrutto. Elementare Watson!...


Elaborazione personale di carta Geografica del Regno di Napoli di G. A. Rizzi Zannoni


ALTRE IPOTESI


[1]  Esisteva un insediamento medioevale sul colle (anche se non ci sono attualmente fonti che lo confermano) che fu distrutto (o seriamente danneggiato) dal terremoto del 1456 oppure da quello precedente. San Martino poteva essere un piccolissimo feudo rustico come quello ove era situata la chiesetta di Santa Maria in Auròle costruita verso il 945 e poi distrutta, intorno al quale ebbe origine l'abitato di Ururi.

[2]  È possibile che San Martino fosse soltanto il palazzo ducale (baronale), il cui colle sembra sia l'unico posto (per ubicazione topografica) ove si poteva controllare l'intero territorio circostante. Bisogna considerare anche il fatto che i confini di un territorio possano mutare nel tempo e, certamente, per quel che riguarda il periodo medioevale è difficile stabilirli a priori. L'attuale contado sanmartinese, in passato, era molto più vasto e magari sarà stato diviso tra vassalli minori. Ci potevano essere due, tre palazzi (o castelli), alcuni conventi. Casale Aurio, Portocandesium e San Martino potevano essere i tre feudi minori e sul colle primeggiava il palazzo principale. Il terremoto del 1456 distrusse così le abitazioni popolari (costruite male e con materiale scadente) del circondario sanmartinese ma non il castello (palazzo baronale), con le sue mura possenti, costruite a regola d'arte.

[3] - Dato l'enorme lasso di tempo (circa un millennio) tra la caduta di Cliternia (495 dell'Era Volgare) e le prime scarne notizie (a cavallo tra il XV e XVI secolo), si può supporre la presenza dinamica di un agglomerato urbano; ovvero un centro (posto sul colle) che esisteva a seconda delle vicende storiche,  geopolitiche o geofisiche (terremoti e pestilenze). Una pestilenza può distruggere un paese e spingere gli abitanti superstiti ad andarsene via ma, ancor più, i terremoti (secondo le statistiche, ogni cinquantina di anni ce n'è uno importante). Può darsi che il paese abbia avuto veramente origini medioevali ma nel corso del millennio (dianzi precisato) la possibilità che il colle fosse stato (diverse volte) scosso da un terremoto è un ipotesi accettabile. È facile pensare che se alcune volte si ricostruiva, può darsi che altre volte (anche per periodi abbastanza lunghi) si evitava di farlo. Ci sarebbe stato insomma sul colle, un aggregamento e uno disgregamento continuato nel corso del tempo, con la gente che comunque rimaneva sempre nel suo contado circostante. Quando accadde il terremoto del 1456 il paese non esisteva o non era ancora stato ricostruito.


Elaborazione personale di carta Geografica del Regno di Napoli di G. A. Rizzi Zannoni

Gli albanesi

   Le migrazioni albanesi (Arbëreshë), nel nostro territorio, risalgono ad un periodo che va dagli inizi del XV sec. fino ad oggi, in 9 distinte ondate migratorie successive, formando colonie sparse per il territorio del Meridione, senza un centro definito. Attualmente il numero è di una cinquantina che assommano a circa 100.000 abitanti che parlano un albanese piùttosto arcaico.
      La terza ondata migratoria è quella che interessò il Molise, risalente agli anni 1461-1470, con la venuta in Italia delle milizie del condottiero Giorgio Castriota Skanderberg, principe di Krujia, che aiutò Ferrante I d'Aragona nella lotta contro Giovanni d'Angiò. Per i servigi resi, fu concesso  ai soldati ed alle loro famiglie di stanziarsi in diverse zone dell'attuale Molise e Puglia.
   Gli albanesi, al contrario di quelli rimasti in patria convertiti all'Islam,  conservarono la religione cristiana di rito greco-ortodosso.

La terza migrazione [1461-1470] è appunto quella che a noi interessa [poiché ci coinvolse come popolo] creò diverse comunità e centri tra i quali:

- Chieuti, Campomarinoe Portocannone(facenti parte della Capitanata); 
- Montecilfone
, Ururie  San Martino [sic] (del Contado di Molise.).
Quindi inizialmente San Martino, avendo una comunità albanese, questa poteva benissimo essere, inizialmente, la sola comunità ivi situata oppure divideva con i sanmartinesi l'abitato a metà: Mezzaterre. Ammesso che esistesse già un abitato così grande da potersi considerare paese.

   Il Tria nel lib.4. §.1. num.5. nelle sue Memori annota : « Quelli di Nazione Albanese mantengono ancora lo stesso costume, come se ora fussero qui venuti dalle loro Patrie, e con esso lo spirito altiero, e bellicoso coll'uso del parlare Albanese, quale è un Greco corrotto, e pieno di volgari idiotismi, e meno ove per le vicende del mondo è cresciuto il numero degl'Italiani, come specialmente in S. Croce, dove in poco differiscono dagl'Italiani, specialmente ne' costumi ».

   Questa massiccia ondata di Popolazioni albanesi, oltre che per un debito di riconoscenza dovuto al principe di Kruja, sembra sia stata consentita e necessitata ancor più dall'urgenza di dover ripopolare questo vasto territorio devastato e spopolato dal terribile terremoto del 1456. Ad Ururi e Campomarino per es. non c'era anima viva, nel vero senso della parola ... Larino distrutta dalle fondamenta, come riporta una cronaca di allora... e il resto del territorio non stava di certo meglio... 
   La stessa S. Croce fu appellata de' Greci, proprio perché ripopolata da gente albanese. E sicuramente anche S. Martino aveva almeno un nucleo consistente albanese, e il toponimo Mezzaterre è significativo ... Poco prima dell'arrivo degli Arbëreshë le nostre terre erano veramente desolate ...

     Il conte, il barone di turno che dir si voglia, non poteva gravare con decime sulla già disastrata e miserevole situazione dei sudditi superstiti, e sperare così di rimpinguare le proprie casse. Ci voleva altra manodopera a buon prezzo... e cosa c'e di meglio, se non consentire lo stanziamento di una popolo, ormai senza più casa e Patria, che viene a legarsi oltretutto al Signore feudale con un debito di riconoscenza.
VEDI http://www.guzzardi.it/arberia/storia/storia.htm
VEDI http://www.ururi.com/cennistorici.htm