Gianni Lannes a radio radicale
12 anni fa
Dialetto sanmartinese | ||||
Grammatica del dialetto sanmartinese, proverbi, modi di dire, usi e costumi della civiltà contadina a San Martino in Pensilis |
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La cosa più importante per un genio consiste nel rendersi inutile, nel lasciarsi assorbire dalla corrente comune, nel divenire nuovamente un pesce e non uno scherzo di natura. Il solo vantaggio, mi dissi, che lo scrivere avrebbe potuto offrirmi, sarebbe consistito nell'eliminare le differenze che mi separavano dal mio simile. (H. Miller) Cosa bestiale la Storia!... Si scrivono dei fatti (veri, verosimili o presunti) estromettendo tutto il resto, ovvero: l'essenziale. La Storia non fa storia; e così ci tocca far riferimento all'immaginario. La storia dovrebbe essere quella riguardante ciò che è stato estromesso, dimenticato, mai reso pubblico. In questo caso la storia diventerebbe un paradosso. La storia la fanno i vincitori ovvero: i perdenti di domani. Ciò che ci rimane di essenziale nella storia può essere benissimo la lingua, il linguaggio, gli usi e costumi di un luogo, che non hanno seguito le direttive dei vincitori-perdenti ascritti ad essa. Una storia minore ma più vera; orale e non scritta, quindi: più attendibile. È più facile falsificare uno scritto che una voce, una tradizione, del folclore nostrano ecc.... E quando parlo di falsificabilità non mi riferisco soltanto ad interessi di parte ma proprio al fatto che è falso l'intento: quello di voler storicizzare gli eventi. Se ne sceglie uno e se ne dimenticano mille. 'A Carrése Carrése - s.m. - [in calabrese: carrisi] - Deriva da carro come altri dialettismi quali l'abruzzese carrésê (agg. di strada, carreggiabile) e il lucano carrêsà v. trasportare. Le Carresi o Laudate sono canti popolari intonati durante alcuni rituali che celebrano delle manifestazioni folcloriche di alcuni paesi molisani. A San Martino in Pensilis, la carrese e la conseguente corsa dei carri sono in onore di San Leo, per celebrare l'anniversario dell'evento, nel tempo immemorabile, della traslazione delle reliquie del corpo di San Leo, dal presunto posto nel quale fu rinvenuto fino alla chiesa madre di allora (Santa Maria) che invece oggi è San Pietro Apostolo. La carrese è un canto monodico ove i distici vengono eseguiti alternativamente da uno dei due cantori. Me vuoglie fa la Croce, Patr’e Figlie, San Leo patrono di San martino in Pensilis e la corsa dei carri. ...Quande une ada parlà de Sande Lé, ada parlà sammartenese, se nò è mejje che ce sta zitte. (Luigi Marcangione) San Leo, sacerdote e monaco benedettino entrò nel convento di San Felice, posto non lontano dalle terre di Cliternia, viveva santamente, predicando e guarendo molti malati. I suoi miracoli gli procurarono tale fama da essere proclamato Santo dal popolo e dal vescovo di Larino. Morì un 2 Maggio attorno all'anno mille e fu sepolto nello stesso convento di San Felice. Questo fu abbandonato per le continue invasioni barbariche e per i frequenti terremoti. Il corpo del Santo stette più di un secolo sepolto sotto l'altare e un giorno... VEDI anche San Leo secondo le Memorie del Tria ![]() S. leo, Chiesa S. Pietro Apostolo - P. Aulicino (Olio su tela), 1768 'A leggende de Sande Lé Tanda tembe fa, forze so' mill'anne, |
Ce 'llonghene 'i jernate; |
La differenza tra il rapporto che noi abbiamo col dialetto e quello che costruiamo con l'italiano è, rispettivamente, come il legame che sussiste con i propri familiari e il legame che si istituisce con un estraneo oppure una persona che si conosce da un certo tempo. Il legame familiare può essere viscerale, conflittuale, impossibile; un rapporto estraneo può essere buono, intrigante, corretto, ecc. Scrivere in dialetto è come ricostruire un mosaico di cui si possiedono tutte le tessere; ma esse sono sparpagliate dappertutto, qua e là, nei luoghi della mente, ma, nonostante tutto, facili da trovare perché sono parte di noi, come noi. È un'idea che da diversi anni mi frullava in mente: quella di scrivere una grammatica del dialetto sanmartinese. Il nostro dialetto, un po' come tutti gli altri (in special modo quelli minori), si sta perdendo. Si è già perso. È un male? È un bene? Sensazione nostalgica forse?... Le nuove generazioni s'illudono - beata gioventù! - in buona mala-fede, di parlare meglio in italiano, con un inflessione falsata e un intercalare privo di un anima(lità), cosa che invece possiede un qualsiasi dialetto. Esso nasce(va) come la vegetazione spontanea, è come le pietre e le piante del luogo; ha un passato, una storia, una legenda... un mito... e... mi ritrovo così ad affrontare la problematica che già Pier Paolo Pasolini cercava di risolvere, se non altro poneva sul tavolo una spinosa questione, una critica sacrosanta; l'abbandono dei dialetti a favore di una lingua, letteraria (d'elite se vogliamo) quale è appunto l'italiano; nato come un evento letterario. Letterario e non popolare. Se è giusto imparare l'italiano, possibilmente al meglio, altrettanto giusto mi sembrerebbe riconoscere questa vasta pluralità dialettale insulare-peninsulare. Si parla di crisi di valori ma la perdita di un dialetto non è forse la perdita del valore più importante?... Perdendo il dialetto vengono a mancare anche tanti altri valori ad esso connessi. È un processo di disintegrazione storica già in atto da tempo, da sempre. Fino a trenta anni fa ancora aveva un senso parlarlo. Imprevidente per il futuro che lo avrebbe dismesso. Quel piccolo mondo antico che raccontava, si raccontava, si è disintegrato. Il dialetto non ha quasi più un senso, sembrerebbe... Fra non molto sarà una ri-scoperta archeo-filologica-linguistica che farà assegnamento (ormai svanita la persona che lo parlava) soltanto a qualche reperto-documento lasciato in eredità ai posteri: le poesie di Sassi, il vocabolarietto di Zurro, .... Il dialetto ci ha forgiati un esistenza alla quale si è inesplicabilmente legato. Ci ha accompagnati negli anni, nel bene e nel male, e fa parte di noi stessi che inevitabilmente ci confrontiamo, perdenti, con la selvaggia globalizzazione. Delle tradizioni, l'ho sempre detto, si prende il lato peggiore e si butta via quello migliore. Prossimamente, in un futuro mica tanto lontano, ci saranno le esequie dei dialetti minori, poi toccheranno a quelli maggiori: napoletano, siciliano, sardo, romano, veneziano, genovese, milanese, friulano, ecc... È un processo globale, poiché l'unica cosa che conta sono ora le leggi economiche. E secondo questa filosofia ugualitaria-massificante vengono implicitamente poste delle domande essenziali: a cosa serve il dialetto?... a cosa serve l'arte?... a cosa servono le tradizioni?... a cosa serve la religione?... a cosa serve Dio?... ecc... Le risposte ovvie che ne derivano possono essere riassunte nella massima di Andy Warhol che sentenzia: "un buon affare è il massimo di tutte le arti". Se c'è bisogno che Dio esista, ci deve essere una convenienza, ci deve essere un buon affare, altrimenti... perché farlo esistere. Il dialetto (per quelli della mia generazione in giù) ci appartiene o, cosa molto più veritiera: apparteniamo al dialetto. Fa parte della nostra fisiologia, del nostro immaginario, nel bene e nel male, così come ci è difficile rinunciare al proprio modo di pensare, al proprio modo d'essere e di avvertire lo spazio circostante, pena l'artificiosità, l'affettazione. Perché dunque il dialetto?... Perché ci ha accompagnato, formattato, per così dire, fin dalla nostra nascita e forse ancora prima nella nostra vita prenatale. Quindi esso rappresenta il sostrato più profondo di noi, la base del nostro linguaggio più vero, il nostro immediato [non-mediato] rapporto con il mondo. Non è nostalgia (un ricordar passato, malinconico, uno scavare-scavarsi che va cercando un mondo perduto) ma un senso di giustizia, di verità, di obiettività, il senso d'essere noi stessi, di lealtà innanzi tutto. Finché viviamo [almeno per noi della ultima generazione dialettale], volenti o nolenti, il dialetto sarà la base di ogni nostra iniziativa, proposito... Il linguaggio dialettale ci ha forgiati, istruiti, richiamati, ammoniti, gratificati, ecc... Dal primo vagito, alla prima parola "mamma!...", alle prime parole familiari e dense di significato che ci hanno caratterizzato indelebilmente... la nostra vita futura. Si nota talvolta persone italianizzate al massimo grado, in momenti cruciali, di difficoltà, imprecano in dialetto... Chissà mai perché! E non è cosa da poco!... Carmelo Bene parla dell'italiano come di una lingua che non esiste se non nella sua frantumazione insulare e peninsulare, un vasto crogiuolo di dialetti quindi che va da quelli settentrionali (ligure, piemontese, milanese, veneto, veneziano, friulano, ladino, ...) al toscano, ai dialetti centro-meridionali (romanesco, marchigiano, napoletano, calabro-salentino-siciliano, sardo, ...). Possiamo paragonare questa smisurata ricchezza dialettale italiana alla bio-diversità e l'italiano come agli OGM, all'omologazione. Può darsi che l'italiano sarà parlato. dalle future generazioni in tutta Italia abbastanza spontaneamente, quasi fosse un dialetto. Ho dei forti dubbi, sulla spontaneità... A noi invece tocca l'impresa di navigare questo passato vissuto perché è presente. Il dialetto è anche la nostra tana. La nuova generazione paesana [senza nessuna smania di atteggiarmi al fatidico sentimento di chi declama "ai miei tempi"] non ha una base linguistica nostrana. L'inflessione dialettale resta, anche se non sempre nella dizione. Il dialetto nasceva, si costituiva ed evolveva nell'ambito della civiltà contadina e ogni parola, ogni gesto, ogni inflessione rispecchiava appieno lo spirito del luogo. Se si ascoltano le intonazioni delle frasi ci si accorge di come sia difficile tradurle se non artificiosamente per mezzo di un'altra qualsiasi lingua (scritta o orale che sia) come ad esempio può essere quella italiana. Ciò che viene tradotto è quindi la frase astratta e avulsa dal contesto della tradizione, dalla sua storia, dal suo paralinguismo. Anche scrivere in dialetto è una sottrazione a quella realtà immediata, spontaneamente intonata, significativa, che è ,e soprattutto era, la lingua parlata. Dico lingua e non dialetto definizione alquanto riduttiva. Cosa manca dunque all'italiano bastardo della nuova generazione?... Un anima, un animalità, la spontaneità, l'immediatezza. Una volta il linguaggio dialettale si sviluppava e si svolgeva nell'ambito di una realtà effettiva, fatta di lavoro, di impegni, di sacrifici ecc. ed era un identità. Nel linguaggio ci si identificava; ed esso ci identificava, dava nome alle cose, riconoscendo-ci il mondo circostante che lo esprimeva pienamente. L'esempio era dato e legato a quella realtà che condizionava e si faceva condizionare dal suo linguaggio. Adesso l'esempio lo danno i mass-midia, un linguaggio informativo, tecnologizzato, astratto, ormai avulso dal contesto paesano-dialettale. Quiz, telenovelas, telegiornali, tele-invasioni... Se si parla allora di globalizzazione, bisogna considerare seriamente, tra la perdita dei valori, il valore del dialetto e del suo linguaggio che è il più importante. Il luogo effettivo, reale, viene a sostituirsi con quello immaginario mass-mediatico. Sparendo la civiltà contadina sparisce anche il suo linguaggio, la sua anima. |