Dialetto sanmartinese
 
Grammatica del dialetto sanmartinese, proverbi, modi di dire, usi e costumi della civiltà contadina a San Martino in Pensilis
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sabato 28 novembre 2009

Cibo e sberle a volontà

Quando uno lavora, si trova per forza in una solitudine assoluta. Non si può fare scuola, né far parte di una scuola. C'è soltanto il lavoro nero e clandestino. E tuttavia si tratta di una solitudine estremamente popolata. (Gilles Deleuze e Claire Parnet)
Cimentandomi col dialetto non ho potuto non notare la relazione tra le mazzate e il cibo. La mia teoria è questa: siccome la vita contadina di allora, come in tutto il Sud, era fatta di stenti e di miserie, associare l'idea del cibo al castigo non è poi così campato in aria; poteva essere, se non altro, un sentimento di rivalsa che covava dentro... nel tempo. Al padrone si dava una buona parte dei frutti della terra, così duramente sudati; e dare un sacco di botte al padrone era un sentimento represso più che giustificato. E adesso so' fìquere, so' lenticchie, so' peparuole, ecc... E così anche i rapporti inter-familiari erano pervasi dall'idea cibo-castigo.
Mazz' e panelle fann 'i fijje bbelle;
pan' e senza mazze fann 'i fijje pazze.

'A câse ce chiâme porte e chi ne pporte fóre d'a porte.
Un mondo crudele e violento per fame o per necessità che dir si voglia. Bbešcarci' 'u pâne  è un'espressione sintomatica. Il termine bbešcà significa infatti sia prenderle (le botte) che guadagnare (il pane). Il detto "chi magne chemmatte c'a morte" può anche essere parafrasato in "chi magne chemmatte ch'i botte".
So' cîce          So' fâfe         So' fafenevèlle So' fâfe ašcâte
So' lendicchie    So' scarciòfele  So' peparuòle   So' pepedineje
So' rrâpe         So' catalogne    So' jéte        So' melechetugne
So' mmaccarûne    So' checùmmere   So' cetrejuòle  So' pertegalle
So' mandarîne     So' meleganâte   So' uelîve      So' nnûce
So' mmènnele      So' necèlle      So' bbestécche  So' melànguele
So' tercenejèlle  So' cetrûne      So' melûne      So' pére
So' méle          So' melegnâme    So' sciuòcche   So' vruòcchele
So' merîquele     So' uelénece     So' fìquere     So' melengròcche
So' cachisse      So' pemmedôre    So' cecóre      So' verràjene
So' tandalàsene   So' mmejjîche    So' crošche     So' patâte
So' screppèlle    So' caràgnele    So' caveciûne   So' scamórze
So' mmestacciuòle So' savecicce    So' presutte    So' pesille
Sembra che non ci sia alimento, vegetale o a animale, che non sia stato risparmiato. Probabilmente spostandoci a Termoli sarà la stessa cosa e, magari, essendo essa una città marinara, ci sarà una forte predominanza dell'irrinunciabile repertorio ittico.
So' lîce   So' merluzze   So' trijje   So' rrâsce
ecc...     ecc...         ecc...       ecc...
Non scampava, all'associazione con il castigo, nemmeno altre cose come il vestiario ... altro ...
T'ea fa 'nu vestîte
T'ea fa 'nu carôse
T'ea fa 'nu caresétte
T'ea fa 'nu pâre scarpe
T'ea fa 'nu pél' e condrapéle
T'ea fa 'a ggiòbbe
T'ea recapà a scrîme
Anche le bestemmie, più o meno per lo stesso motivo, sovrabbondano. E così dal sangue de  mo' ca ce ne jâve, che sembra voglia a stento trattenere l'imprecazione, si susseguono sangue de... con tutta la sfilza di santi, non esclusi angeli, madonne, Cristo e Padreterno.
L'anti-religione siffatta troverà poi sfogo nell'altra religione ateista: il comunismo. E così un frequentatore di questa novella dottrina escogitò un sistema per evadere la fiscale legge fascista che proibiva di bestemmiare. Ad ogni bottone della giacca, vero o immaginario che fosse, veniva assegnato simbolicamente un santo. Certamente una giacca fatta di tanti bottoni, con la possibilità magari di incentivarne il loro numero. Ad ogni bottone un numero e ad ogni numero un santo, e non ci si poteva sbagliare!... Sangue d'u prime bbettône!....  Sangue d'u terze bbettône!... ecc... Dava i numeri!... Un metodo geniale ed efficacissimo che sostituiva egregiamente la repressa espressione del sangue de mo' ca ce ne jâve!...
Così rimaneva in gratia plena e, soprattutto, non dava appiglio alla sanzione dei birri della buon costume.

     Allo stesso modo avvenne probabilmente anche  per le espressioni figurate riguardanti il dono-omaggio che si doveva al signorotto.

Don *** oppure  Ssegneri, uojje so' fìquere! Dumâne so' scarciòfele, pescrà so' faf' ašcate, e se ssegneri vo'...  i  facce pure 'u vestite!

Uno sfogo si deve pur trovare! Diamine!
   Perciò il dialetto abbonda di terminologia blasfema e violenta, poiché è strategia e, dunque, lotta per la sopravvivenza.  Abbonda altresì di termini riferiti al lavoro, alla fatica e al dolore da essa provocato. È anima-lesco e spesso ci si sente come animali, affaticati, bastonati, ingiuriati. Certamente il dialetto non è una lingua aulica, sebbene  profondamente sentita e poetica.

Carlo Zio mi ha raccontato che ai suoi tempi l'espressione sperejame ca son 'a cambanelle era una triste realtà, di routine; non si volevano figli se non quelli  necessari, specialmente se femmine (la disgrazia in effetti è femmina). E se il bimbo moriva (lutto che quasi si mutava in nuovo battesimo) il padre, oberato dal gravoso lavoro,  molto spesso non aveva nemmeno tempo per andare al funerale del suo tanto in-desiderato figlio o figlia. Il parto gemellare doveva essere considerato una vera maledizione di Dio. Così si sperava che 'a cambanell 'a mmorte suonasse.

SRADICARE LE RADICI

   Diamo un altro esempio di ristrettezza. Realizzare una porta o una finestra, cosa che oggi non comporta grandi problemi, allora era un evento straordinario. Tanto per accennare qualcosa che accadeva in questo passato dialettale. Finita la fame, dissolta la civiltà contadina, arrivato il cancro del progresso, il dialetto, che aveva una sua ragione-regione che lo esprimeva, finisce il suo compito. Le espressioni così colorite e nostrane si disintegrano al contatto con l'educazione ai nuovi valori, economico-lnguistici, che non sono più quelli di una società di sussistenza. Il dialetto muore così, inevitabilmente. Cronaca di una morte annunciata si potrebbe dire. È lo scambio di questi due valori che preoccupa: chi lasci 'a vije viecchi' e va pa' nove, sa che lasse ma ne sa che trove.

   La sostituzione comunque del dialetto con l'italiano ha creato nella generazione dialettale, ovvero  nata col dialetto, una disindividuazione latente irrisolta più o meno cosciente e non troppo  contenta dello sfratto. Si vede così sprofondare, come se mancasse loro la terra sotto i piedi, con tutti i suoi ideali.
   Un po' come è successo con i Sassi di Matera. Ognuno di noi può ricordare il volto [la televisione ancora non occultava bene la genuinità delle emozioni] amareggiato e inconsolabile di quella gente strappata con forza dalle loro case e ingabbiate in strutture di cemento armato. Gli intervistati manifestavano un aperta e concitata disapprovazione. Quale era la motivazione di questo sfratto legalizzato?... Niente popò di meno che l'idiota pretesa inconsulta di dare a quella gente una condizione di vita più civile e più agevole. Civile! Agevole per chi... se quelle persone erano così inconsolabilmente tristi e sconsolate. Non so in politica, cosa abbia realizzato quel gran filibustiere (ovvero gran politico) che era De Gasperi, ma, sarà certamente stato maledetto da tutta quella generazione sradicata. E poi si dice di conservare le proprie radici! Ma tutto sembra che vi cospiri contro a cominciar dalla ragion civile. Le radici, a ben guardare, sono il contrario della civilizzazione e ancor più oggi. Anche se poi si finge di dare una mano spacciando così della propaganda spicciola per la conservazione e tutela dei beni culturali: monumenti, luoghi, dialetti, ecc... Il diavolo alle prese con l'acqua santa.

   Lo sfratto dialettale sebbene molto più grave sembra non produrre, apparentemente, una protesta, una sacrosanta contestazione. È un effetto domin-atore della democrazia che fa credere che esista la libertà di scelta dell'individuo. Poi l'informazione fa il resto. Non bisogna allarmare!... che tradotto in realtà sarebbe: bisogna occultare. Poi quando fa comodo si fa sapere che l'allarme è stato lanciato... ecc. con tanto di camici bianchi ed esperti specifici del settore...

  Dunque lo sfratto in atto sta producendo inesorabilmente una generazione dilaniata, non identificata, che non si riconosce se non nella sua forma burocratica di stato-civile. Del resto alla nuova generazione (e ancor più a quella che verrà dopo) gli verrà sostituito completamente il dialetto con la lingua ufficiale. Non ci si identificherà più in una territorialità (che comunque apparterrà sempre e completamente al processo economico) e il tempo verrà gestito, non dai cicli delle stagioni e dal corso del sole, ma da quelli informativi e dalla propaganda.

   Ciò che mancherà ai giovani oltre tutto sarà la base linguistica che produrrà spaesamento. Cittadini del mondo equivarrebbe a dire: sfrattati per sempre dal mondo.

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